l’ira

l’ira

Ira.

Stomaco che si torce, bile che sale, ostruisce i pensieri, inacidisce la bocca, le parole, i pensieri.

E’ veleno, puro incontrollabile arsenico che come nebbia grigia rende cianotiche le sensazioni.

Accade nella giornata più normale. Non c’è premeditazione, l’ira ti prende, cattura, è una trappola aperta davanti al tuo cammino.
Eccola lì, piazzata come tigre attenta ad aggredirti, attendendo il momento propizio per piantarti le unghie addosso. Attende nella tua auto, mentre attraversi la città, ed ogni curva, ogni auto che incroci e affianchi lei soffia sul tuo collo. Alimenta la musica nella tua radio, ti scarica adrenalina nelle vene. Si accoppia con la caffeina del caffè, al bar. Sa bruciarti le labbra, nascosta nel ripieno innoquo di una briosce troppo calda.

Il suo spettro nascosto nelle mail, nelle brutte notizie, nel non accettare la delusione che forse…quella casella è vuota.

Ti guardi dentro, ti spaventi. L’insoddisfazione ti lacera, come acido distrugge la tua autostima, il controllo. Il tuo controllo.
Distratto lavori, insisti su quella strada che non senti tua, oppresso da quelli intorno, quelli che ti pestano i piedi. Rispetto, ti ripeti, voglio rispetto.

La vedi, mentre sei in coda dal capo. Arriva con un pantalone troppo stretto, la caviglia che balla sicura in tacchi appuntiti, lo sguardo stronzo dietro ai rayban. Nemmeno ti guarda. E tu vorresti fotterla, fotterla, fotterla. Strapparle quel sorriso superiore, farla sentire come lei fa sentire te, sentirla godere mentre le ridi in faccia. E vederla scappar via, poi, raccogliendo i suoi stracci, e scampoli di orgoglio. Quello che lei, con quei tacchi, straccia ogni giorno.

La tigre paziente si liscia il pelo, attende.

Sai innervosirti per una pausa pranzo perduta, tu li, di fronte al pc con un panino stantio, un’unghiata della tigre e via, la camicia non è più candida. E li sale, la rabbia. La reprimi, la soffochi. Asciughi malamente, tamponi la macchia, con mani che tremano. Imprechi, sottovoce, e infine ridacchi, massì.

Esci, sei nel parcheggio. E’ quello del commerciale, sicuro, che aprendo la portiera della sua auto ha graffiato il fianco della tua. L’ira alberga sempre nella carrozzeria dell’auto.

Eccoti. A casa. Il tuo focolare domestico. Sotto la doccia, troppo caldo-troppo freddo. Ti tagli cercando di farti una barba rabbiosa, il sapone brucia, il respiro alto rimbalza nello sterno. Ci provi, a stare calmo.

E ci provi, a prepararti la cena. Che lei non c’è-non c’è più-non c’è mai stata. Colpa tua, colpa sua, colpa di un’altro, di un’altra. Di un destino, del suo essere troppo bella, di esser stato tu troppo idiota, a perderla. L’orgoglio batte ancora cassa, mentre tu ti vuoi dar ragioni, cazzo di ragioni. E certo, bruci tutto. L’olio, la carne, il pane bruciato invade la casa, e la tigre ti assale. Getti tutto, gridi. Lanci tutto in aria, l’ira si impossessa di te, e devi distruggere, distruggere, tutto, ogni cosa. Mobili, bicchieri, libri, telefoni. Cadi, cadi in un vortice, non sai aggrapparti al controllo. Parole come pugnali trafiggono l’orgoglio, devi rompere, rompere qualsiasi cosa. E sai solo tirar fuori il peggio, e ancora di più, che non hai più bestemmie che dissetino la tua rabbia. Fino a che non distruggerai i vetri, i sogni, i ricordi, fino a che….ti autodistruggerai.

E crollerai, li, in terra, abbracciandoti le ginocchia, impaurito da te stesso, i singhiozzi a far sussultare lo stomaco.

Il graffio dell’ira scolpito nell’anima.

come sopravvivere al convegno

come sopravvivere al convegno

E certo che capita anche qui.

La sindrome da Iso9001 attacca prima o poi tutti, anche i comunali.

Un giorno arriva il Direttore (ma quant’è bello il Direttore…) e ci degna di uno sguardo, una grande riunione. Tutti bravi scolaretti, seduti in cerchio, e davanti lui. Anzi, Lui.
Ci parla, ci dice, ci spiega. Ci vuole un quarto d’ora per comprenderne il linguaggio, i previdenti hanno scaricato sul palmare un dizionario comunale-direttore per riprendersi dallo shock, che noi senza la eRRe mestrina o la terminologia da bàcaro ci gira la testa.

Knowhow, ha detto. Dev’essere quel cane a pelo lungo, quello che mangiano in cina.
Misunderstanding, ha detto. Ah si, quel pezzo funky dell’Aguilera.
Ustrega, conditio sine qua. Io so solo ite missa est, mi alzo e me ne vado.
La certificazione di qualità. E’ quella che danno ai peri, se son maturi. Ci mettono un bollino Chiquita allora. L’hanno fatta anche da mia cognata, gli facevano fare il conto delle rondelle di ferro che facevano ogni giorno. Forse a noi conteranno il numero dei caffé presi alla macchinetta.

Dobbiamo recuperare la vostra professionalità. Ah, questa la capiscono tutti: vuol dire "adesso ve la mettiamo nel culo a tutti". Socrate, o Platone, insomma, uno di quei scrittori russi li.

Il giorno dopo, tutti li, nella sala congressi. Modello gita scolastica, tutti come pecoroni arrivano a sedersi…nell’ultima fila. Tutto vuoto, ma ultime due file affollatissime.
Ci si passa caramelle, gazzette, ipod, si attiva il bluetooth per scambiarsi video porno e si va di foto di gruppo. Che andrà spalmata sul desktop domattina.
I più esperti in imbosco, previo info sul colore delle poltroncine, si sono vestiti in tinta. Camaleontizzati.

Poi arriva lui. Cioè, Lui. Il bellissimo Direttore.

Non è pelato, è illuminato dal cielo. Nemmeno il suo completo di lino si permette di spiegazzarsi su di lui. Ha una scarpa lucida e un calzino…il calzino in tinta col pantalone…che non scende. Mai. Sempre perfettamente su, il rocco siffredi dei calzini.

Prende il microfono. Scene di panico in platea, gonne inguinali in prima fila appaiono d’incanto, visi cianotici delle segretarie del commerciale intente a trattenere la cinta, alcune vengono soccorse dai paramedici presenti. Lancio di reggiseni, tanga e gambaletti color carne bloccati da energumeni della security.

Torna la calma.
Il Direttore prende la parola. Il microfono si rizza (tutto, di fronte al Direttore, si rizza).
Con l’occhio dal basso all’alto scruta i dipendenti, che intimoriti scivolano tra gli intersizi delle coste del velluto rosso delle poltroncine. Per alcuni sono ancora in corso le ricerche per il ritrovamento. Introduce lui, l’oratore. Che è ora, dopo sarà un dopatore, prima era un eratore.

(è difficile, lo so, riprovateci,  rileggetela. su, che ci arrivate.)

Inizia il convegno. L’oratore parla, lento, leeeento…leeee…yaaaaaaaaaaaawwwwwwwwwnnnnnn……

…………zzzzzzzzz…………

Sul megaschermo c’è, sempre, la presentazione in powerpoint. Si, perchè dicono serva a quello, non alle catene via mail sui dictat del dalai lama.
Le diapositive hanno sempre l’immagine stilizzata che trovi in automatico su word. I discorsi, astrattissimi, contemplano dati, percentuali, numeri. Il comunale riesce si e no a fare il conto di quanto toglie dalla chiavetta se si compra la Fiesta al posto dei Ringo.

E sul più bello, arriva Lei: la PIRAMIDE. (scene di panico, qualcuno urla, qualcuno piange, qualcuno chiama la moglie dicendole che comunque, l’ha sempre amata.)
Prima questo, per arrivare a quello, e poi a quello …. e ognuno del pubblico, a seconda del livello assegnato, stringe proporzionalmente le chiappe. Ecco, cos’è la piramide. Qualcosa che si INSINUA.
Torna alla mente la frase "….recuperare la vostra professionalità..".
Hostess preposte passano per le file distribuendo tubetti omaggio di vasellina.

Mancano pochi secondi ormai alle cinque. Si, finisce alle cinque. Ultimi flash colorati illuminano la platea, l’ultima diapositiva indica i numeri 5.10.15. Se lo mandi a cinque sarai sfortunato, a dieci tromberaicome un mandrillo, a quindici sarai sodomizzato dal direttore entro la prossima finanziaria.

Le luci si accendono. Colpi di tosse. Sempre, ci sono sempre i colpi di tosse.
Le cornee riempite di capillari rossi tradiscono i dormienti, le gote arrossate i dipendenti in fase di "gemellaggio" sotto le poltroncine; il direttore invece è lì, soddisfatto, lindo, speranzoso. Un fascio di luce dall’alto lo illumina, riflettendosi sulla pelata il riverbero acceca i dipendenti, che si prostrano chiedendo perdono dei loro peccati. La segretaria Bernardette Vianello prende nota di tre obiettivi, chiamati in codice "i tre segreti di Marghera". Diciamo tutti ascoltaci direttore.

-ascoltaci direttore.

(anche questa è difficile, e pure abbastanza bruttina, conveniamone insieme).

Tornando a casa, il comunale racconterà a moglie e figli del lungo e impegnativo convegno, dei temi trattati e delle importanti decisioni prese per il riassetto della sua direzione, di cui lui si è fatto promotore. Si prevede anche una promozione, forse assumeranno anche il cugino arturo, vedrai, come mio uscere personale. E alfonso come autista. Sarà tutto diverso. Applauso della famiglia, lacrime di commozione della nonna, principio di coro da stadio dei due figli.

Il giorno dopo, tutti li, davanti al pc, a fare il solitario con le carte. Cambia un cazzo, cambia.

non è importante.

non è importante.

Cerchi la pelle calda, ti aggrappi. Cerchi di mangiare l’aria, fare il pieno di lui. Ascolti il suo respiro pesante, del sonno profondo, ti arrampichi a cercare l’abbraccio che contempli più centimetri di pelle possibile. E ti giri, rigiri, riabbracci, stringi una mano, un braccio, un istante, scacciando la mente che vorrebbe svegliarsi. Vattene, che voglio dormire, o far finta, ancora un po’.

Un sole fresco si intrufola tra le tende, auto che passano, vita di una periferia in moto per la città. E io a guardarti. Che sei cambiato, che hai qualche ruga in più. E io che insieme a te, cambio.

Cambio cuore, cambio esistenza, luoghi e persone, un’altalena impazzita tra passato e futuro, presente non pervenuto.

Ma no, che cambiamo insieme. Chiudiamo il mondo fuori dalla macchina, e ce ne andiamo via per qualche istante, illudendoci di tenerci la mano sempre. E io ti sopporto, nelle tue manie che conosco così bene. Ogni tanto lo stomaco grida che è la via sbagliata, che mi incammino in una vita con te, te che non sai cantare. Ma poi, cioccolato per diabetici, ti riprendo a piccole dosi.

Non sappiamo più dirci bugie, e a me mancano.

Un’amore da sposi affiatati, una doccia fresca, e mentre passo la spazzola liscio capelli e pensieri. L’affetto del tuo sguardo riempie la stanza, non so se esserne riconoscente o negarmi.

Non so più dirti ti amo. Ho smesso di chiedermelo. E non è importante.

What are U lookin’ 4, flauta?

What are U lookin’ 4, flauta?

 

Me ne sto in mezzo al passato, che mi grida addosso. Tutt’intorno la stessa serie di carceri, e lo stesso istinto, le stesse vie di fuga, di fronte a me.

Una nebbia fitta, gelida, intorno. Mi chiedo dov’è il mio posto, al via ho pagato venti euro per arrivare lì, al parco della Vittoria. Dicono che esista. C’è una casetta verde, diversa dalle altre, tutta per me. C’era scritto nelle istruzioni.

Un uomo che ruba la palla ad un bambino, in piazza, me ne ha comprato un pacco intero, giura che è tutto vero, lui che mente anche a se stesso.

Pesco una carta.

Il carabiniere scrive, sottovoce mi sgrida, finchè scoppio, e lo prendo per il colletto. Guarda queste mani, quando saranno di nuovo fasciate d’orgoglio, con sotto ancora violenze, allora verrò qui, e ti sporcherò quel bel colletto bianco di falso buonismo. Perchè ora grido, ora prendo a pugni ogni pedina.

Pesco una carta, devo ancora star ferma un giro.

E allora pensi, conti quante caselle mancano, e quelle indietro sembrano identiche a quelle davanti. Mi gira la testa.

In mezzo a tutto, spunta lei, tutto ciò che non è mai stato madre, e fermo il suo braccio, che mai dovrà toccare il mio principe. Vorrei picchiarla io, se un qualche comandamento non me lo vietasse. Lei e tutto ciò che è stato, e la voglia dei miei 17 anni di fare una valigia, scappare via, mandare affanculo, dallo stomaco in fuori, tutto. Rivedere tutto addosso al principe, e io che non posso portarlo via. Tesoro aspetta, abbi pazienza. Mi ascolto, e sembro un disco che salta, la stessa frase in repeat.

Tiro i dadi, domani è nuovamente lunedì. E sogno.

Sogno quel giorno in cui chiuderò una porta, e mi siederò a terra, in una casa vuota, da riempire di futuro. E piangerò, leccandomi le ferite, asciugandomi dopo questa bufera. E mi rialzerò da li solo per… dare ancora, ancora un altro giro di chiave, alla porta.

E il mondo fuori, che muoia pure allora.

nessun titolo

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Vorrei prenderti il collo, e stringere, stringere, stringere.
Vederti rantolare, aggrapparti ai miei polsi tentando di fermarmi, agitarti, dimenarti disperato.
Vedere i tuoi occhi schizzati di terrore, pian piano comprendendo che non scherzo, che non mollo la presa, che stringo con una forza inaudita, con la freddezza di chi per troppi anni ha sopportato.
Vedrei che lentamente le forze ti abbandonerebbero, e per una volta proveresti anche tu lo sfinimento, la voglia di cedere, di mollare, di lasciarsi sconfiggere, uccidere. Che io oggi mollerei volentieri, se non ti odiassi tanto. Se non avessi tanto ferito il principe.

Vorrei cercare una catena, una catena chiodata. Te la lancerei addosso, e tu a torso nudo mi chiederesti con gli occhi se sono sempre la stessa amabile donna che hai conosciuto, che hai amato, che pensavi potesse subire in eterno le tue angherie, forse. Quella che ti perdonava, che superava, che dimenticava, che mediava. Eccomi qui, a strapparti la pelle di dosso. Per me, per il principe, a cui hai strappato sogni e sorrisi.
Ad ogni frustata gridi, con addosso la disperazione di non poter sfuggire, di non poter scappare, di essere vittima senza appello. E sanguini, la pelle viola intinta del rosso della rabbia, la mia, la mia gigantesca, immisurabile rabbia. E tutt’intorno, il sangue che colora ciò che ti sta attorno. Lì, a ricordarti ogni giorno, come lo è stato per me, che non hai scampo.
E brucia. Senti come brucia quando ti feriscono, lo senti? Lo senti?

Ti legherei, corda alle caviglie, nel pozzo più profondo. La stretta che ti macera la pelle, la testa in giù, che si intorbidisce di pensieri, di maledizioni, le forze che ti mancano. E tutto attorno il buio, niente presente, niente futuro, e il passato è li fuori, bello quanto prologo falso di ciò che sarà.

 

E infine. Un colpo di pistola. Uno solo, fisso, dritto.

Tu mi fisseresti incredulo, senza sentire dolore, senza aver altro che pensieri, e più nulla da dirmi. E io rimarrei col braccio alzato, fino a che non ti vedrei crollare. Che mi basterebbe un colpo solo.

 

– signora, le assicuro, non abbassiamo la testa, non cercheremo mediazioni. Si fidi. D’altronde non possiamo mica ammazzarlo, quest’uomo.

– non si preoccupi. A quello ci penserà il buon Dio.

O io.

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Passando il casello mi sentivo male. Mi sa che te ne sei accorto.

Pensa, nove anni fa a quest’ora, stavo preparando la serenata, sotto al suo balcone. E la parrucchiera arrabbiata, che voleva mi tenessi i bigodini fin la mattina dopo, che l’acconciatura sennò non teneva.  E invece no, mi son messa uno straccetto nero aderentissimo, il tacco pauroso, ho ingaggiato Olga per l’accompagnamento, e gli ho suonato Saen Sans, sotto il balcone, la sera prima. Che domani son nove anni che mi sono pensata di crederci, all’amore per sempre.

Ecco. Adesso che mi stai qui vicino, mentre andiamo come ladri in casa mia, a riprendere le mie cose, ti dico che secondo me potremo stare bene insieme. Per cinque anni, non di più, ma staremmo davvero bene. Senza pensare che sia eterno, senza far figli, senza comprar case, un contratto a tempo. Saremmo felici, terribilmente. Io non ti cambierei, tu mi accetteresti, non ci impediremmo nulla.
Non faresti a tempo a vedermi troppo vecchia, io non farei a tempo ad odiarti se russi la notte. E non esauriremmo la voglia di amarci, di morderci, di respirarci. Non mi abituerei.

O meglio. In cinque anni forse si, ma ormai ci conosciamo da quattro.

Ci aspetta un anno meraviglioso. Mi sposi, così, fino a primavera?

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Ribadisco.

I marocchini che "piangono" perchè, poveretti, loro erano convinti che le francesi ci stessero… E certo. Li hanno poi denunciati perchè ci tenevano a mettere in piazza che s’erano trombate due stranieri. O forse no, vogliono screditare il turismo in italia. O anche, i marocchini poi non han fatto la seconda, e si sono offese.

Ma fatemi il piacere.


Per il banner, la stringa  (made in supergiovane) è questa:

<a href="http://laflauta.splinder.com/post/7225180"><img rc="http://digilander.libero.it/scarabocchiO/tr.jpg"></a>

 

quel giorno.

quel giorno.

Ero vestita di bianco, quel giorno.

Come le spose. Giusto l’antitesi di ciò che ero, quel giorno.

Percorrevo il tunnel di pendolari, come una fatina bianca trasparente, invisibile, agli occhi del passante frettoloso, dello studente in eterno ritardo, degli impiegati assuefatti dalla routine. Io, che li la routine la iniziavo, quel giorno.

Un suo ritardo breve, e rimanere lì davanti alla stazione di una città a me straniera, ad aspettare, a riflettere, che ogni volta ci si ritrova ad una pausa inattesa, il cervello inizia a lavorare implacabile, elaborando i pensieri, spogliandoli dall’ipocrisia di come vorremmo vederli. Togliendo la cornice ai nostri felici quadretti, togliendo la luce soffusa, esponendoli al pubblico sdegno, e alla propria vergogna. Che io, mi vergognavo, quel giorno.

Fino a prima non ci facevo caso. Facevo tutto con leggerezza, non mi sentivo addosso quell’immagine, nascondermi era quasi divertente. Eccitante. Ero la vera e propria "cattiva ragazza", il massimo della provocazione. Peccato che li, in quella stazione, vestita di bianco, era diverso, quel giorno.

Mi misi addosso scampoli di orgoglio, e seguii le indicazioni arrivatemi via sms. Gira di la, son parcheggiato davanti li, ti aspetto, amore mio. Eh. Amore mio. Qui mi guardano tutti, mi additano, mi insultano, o forse nemmeno mi vedono. Ridicola, sta mia coscenza che batte cassa proprio ora, mi dissi quel giorno.

Salendo in macchina, non riuscivo a dir nulla. La mia esuberanza non si accendeva nemmeno davanti a quel sorriso.. Volevo chiedergli, ma te, te come fai? Come riesci a non farti problemi. Come fai a non fermarti, a non avere un pensiero fisso quando sei tra le mie braccia. Come puoi riuscire a vivere alla giornata. Come puoi accettare senza ribellarti mai. Io quel giorno, quel giorno ci avrei strappato di dosso il burqa delle menzogne. Quel giorno.

Ma poi, poi reciti. Come se il mondo cambiasse. Un mondo parallelo, opposto, in cui vivere come ti pare, senza redini, senza regole dettate dal reale. E tutto scivolava, giorni, pasti, passeggiate mano nella mano, anima nell’anima, corpo nel corpo. Quel giorno poi, dimenticai.

Poi il rientro. Di nuovo quella stazione, di nuovo il mio vestito bianco, che ora non mi sembrava più tale. Scesi dall’auto. Guardavo le mattonelle sporche della strada, reali quanto quella fine di parentesi. Le lacrime esplodevano dentro di me, ma tra noi non se ne parla mai, è un dato di fatto, inutile. Scendo qui, vado da sola, ci vediamo, ti chiamo, ti amo. Gli occhi scoppiano, i miei, i tuoi. Me ne scappo via. Quel giorno corsi tra la gente, con solchi sul viso di liquide emozioni. Iniziava a bruciarmi viva, quel giorno.

Ho comprato un estintore per passioni. Poi una crema protettiva per le speranze, a copertura totale. Ho preso un autoabbronzante per la felicità, così si pensa che lo sono, felice. E ho un ombrello che mi ripara dai colpi di fulmine. Ho poi preso un demolitore di sogni, silenziosissimo, nemmeno te ne accorgi.

Eppure continuo a bruciare, bruciare viva. Ogni giorno lo stesso giorno.

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Voialtri non potete capire.
Voi, che tutti gli anni avete la precedenza per metter la fila di crocette sul piano ferie. Voi, che vi prendete tutto agosto. Che costa un casino, ma ci si deve andare, fuori in vacanza.
Voi che andate a mostrare il topless non a jesolo, ma in croazia. Che non sia mai troviate il capo del personale li (toh, è giusto due scogli più in là, che combinazione..).
 Voi che andate in sardegna da quindic’anni, e che pensate che davvero i sardi vi considerino di casa.
 Voi che andate in montagna a funghi, trasformandovi in peter di heidi con scarponi, calzettoni di lana grigi e braghe a zuava con camicia scozzese..ma che le tiracche con la stella alpina, eddai cara, non buttarmi sul trash del tutto.. voi che poi mostrate delle amanite falloidi all’albergatore, convinti di aver trovato un porcino gigante sotto il pioppo dietro la chiesa (che nel bosco, quello vero, mica ci andate..).
Voi veneti, che chiedete uno spritz anche sul mar baltico. Voi romani, che du’ spaghi li mettete sempre in borsa, sia mai. Voi milanesi, che anche sotto l’ombrellone aggiornate via cell il blog (momy, la dichiaro in arresto..) e andate in ferie col titti il cicci la bambi e la pucci, mettendo in valigia i tacchi a spillo (a far che!) e una quantità illimitata di oscene infradito etniche.
Voialtri non lo sapete cosa sia qui.
L’ufficio vuoto. Che senza gente non si assorbe il freddo del condizionatore a palla, e stai col pulloverino di lana sulle spalle, per poi passare dalla camera iperbarica per uscire a pranzo sotto i 40°celsius esterni.
 
Silenzioso. O anche no. L’usciere si sfoga intonando "a mezzanotte saaiiiii…" approfittando dell’acustica dei corridoi vuoti. Le radio si alzano, si scopre che il serio geometra del terzo ufficio in fondo va di smashing pumpkin, con cravatta annodata in fronte, maniche su e sguardo arrapato, usando il tubetto di pritt come microfono e ballando ignaro di alcuna intrusione.
Gruppi malassortiti vanno al ristorante, altri rimangono con l’insalata di riso e la pesca davanti al pc, altri vanno a prendersi il pranzo al macdonald’s, nascondendo bigmac e patatine sotto il braccio, tutti rimasti orfani del compagno di scrivania. Quelli malassortiti parlano del tempo, sono i rimasugli dei clan impiegatizi che si riuniscono tristemente in attesa del ritorno compatto dei colleghi del cuore.. E le vacanze, eh si, e i figli, mi passi il grana, il caffè lungo, ostrega com’è tardi, che poi a settembre torneranno ad ignorarsi tra i corridoi.
I colleghi poi vanno in ferie senza mai lasciar nulla in sospeso. Non sia mai che lascino la tua scrivania vuota….indi, fanno un tour de force per finire tutto in tempo, non importa come. Così partono sereni. E ti lasciano risolvere i casini che, in quel loro ultimo maledetto venerdì, hanno impiantato su per la fretta.
E c’è sempre il momento in cui arriva il figlio del capo. Un bimbo insopportabile e bruttissimo che ti verrà appioppato e imposto per tutta la mattina, complice le vacanze e la mancanza di centri estivi, a cui darai i tuoi evidenziatori e timbri, lui farà il disegnino porno che dovrai, buoncuore, appendere a fianco al calendario di Raul Bova. Se non sopra. Ovviamente romperà pure l’unica cosa preziosa che si trova sulla tua scrivania (a cui tu tieni immancabilmente) e tu cinguetterai falsa al capo “ma noooo non si preoccupi, non fa nulla….” Per poi correre in bagno piangendo, alla Magda di Verdone.
E alla fine, che accade?
Meeting alla macchinetta?…no, troppo triste. E pericolosa la presenza delle fiesta-titenta in terza fila. Vabbè, tanto il costume non lo metterò più fino a giugno.
Giro per uffici? Lo fai una volta, due. Poi esaurisci le energie. E ti chiudi in te stesso, tra le tue penne, le foto della famiglia (-sei tutti noi!puoi farcela!) e i blog.
Ecco. Noi poveri cristi che ferie o non ferie, il blog lo aggiorniamo. E ci scriviamo tra i commenti. Diventiamo degli anonimi, per veder più alto il numeretto tra parentesi… come se in fondo non fossimo davvero soli in questo web.
E guardiamo il meteo. E calcoliamo l’ascendente del nostro cane. E facciamo un continuo aggiorna sul sito dell’ansa, che una bella catastrofe naturale ci intratterrebbe un poco.
Alla fine, ebbene si. Parliamo dei nostri problemi alla fotocopiatrice.
 
Voi non potete capire. Vi prego, tornate. Tornate.
 
 
jazz night

jazz night

Mentre gli snocciolo opinioni massacranti intinte di zucchero, Michele ascolta frantumarsi le sue certezze, metà difendendo, metà ammettendo i limiti di questo suo trio. Mi dico, sarebbe meglio che glielo dicessi chiaro e tondo, sembrate suonare tre pezzi diversi contemporaneamente.

Ma stiamo andando a fare una serata, non posso smontarlo così già ora. Che ho messo le scarpe basse.Che ho paura di farmi notare.

E pensare che anni fa me li magnavo tutti.

Arriviamo, sotto quel bellissimo campanile. Michi rabbrividisce nelle sue braghe corte e sandali, io sono intimorita. Che cazzo, lo stato di insicurezza che ho addosso mi è così nuovo, ed incontrollabile. Incontro i compagni di cordata, stringo mani, sorrido, e dopo minuti due iniziano a parlare, il solito gergo.

Il jazzista ha nomi, pezzi, discorsi che mi stroncano. Io che non mi riesce ad essere così. Appena ne conosco uno che "so" annuisco contenta, ma sembrano tutti discorsi da grandi.

A tavola si allargano i discorsi sul teorico, posso infiltrarmi. Butto lì qualche intervento, mentre lo faccio si girano verso di me, in religioso silenzio. Sento il loro giudizio nascere da ogni mia locuzione.

Ognuno dimostra a parole, si crea una sua reputazione, un suo rispetto, già ora. Ti crescono i timori, di salire sul palco con questi che si presentano come mostruosi signori del jazz. E io tento la carta della modestia assoluta, che stona, stona, non sono convincente. Mi riascolto e mi sento presuntuosa.

Ci alziamo tutti, ci portiamo al palco e iniziamo a incastrare cavi e leggii. Nel palco non c’ è spazio per me e michi. Io mi infilo in fianco all’organo, ho l’orgoglio che batte, ma il volume del mic del flauto è basso, troppo basso. Passa un pezzo, ne passano due, io abbozzo giusto qualcosa.

Fanno pezzi che non conosco. Hanno arrangiamenti che sbircio dai leggii, ma non ci son dentro, faccio fatica. Michi, lui s’è rassegnato ancor prima di provare. E’ giù dal palco, guarda, ascolta e impara, dice. Io non posso, mi han chiamata per  suonare, a prescindere se ho le palle o meno di mettermi in discussione.

Attaccano un altro pezzo, un blues rovesciato sembra. Mi giro verso il mixer e alzo. Alzo a palla. Ah ecco, eccolo il mio flauto, sopra tutti loro, bene. Non aspetto che mi sia data voce. Rubo le idee, cerco il feeling con almeno uno di loro.

C’è il batterista, che sembra esserci, e ci siamo, ci siamo.Gioco con le poliritmie, e lui apprezza, mi dirà che ho "davvero ritmo", e so che un jazzman si taglierebbe le vene per lungo pur di non fare un complimento. Il bassista ogni tanto mi guarda, non so se perchè mi si vorrebbe fare a fine serata o perchè pensa, orcoboia, è brava sta ragazza. E’ ovviamente la prima ipotesi.

Inizio a capirci. Chiamo Michi, lui di mettersi in gioco non se la sente. Già fare due o tre pezzi per lui è abbastanza…. Mettiamo in piedi qualche standard, e i "grandi" un po’ s’incartano. Che far bene le cose complicate è forse più facile di far bene quelle più scontate e semplici.
Io come brava tennista  respingo ogni tipo di tiro, anche rotolando in terra, che sia un pallonetto o una schiacciata. Corro su e giù per tutta l’estensione del campo, e gioco, gioco bene.

Arriva la Garota de Ipanema, richiesta dai cinque che costituiscono il pubblico. Ed è il pane di ogni flautista. Veloce, funky, che ne so, so solo che le dita vanno con meno inibizione della mia testa. Non ho assolutamente idea di ciò che sto suonando, le note escono come suggerite dall’auricolare di Ambra, e ci stanno tutte. Sembra andare in bicicletta dopo mille anni di sedia a rotelle.

Il cuore batte a mille e mille all’ora. La testa mi gira. Suoni che partono dalla stazione dell’anima, scivolano sui binari delle mie vene, ed escono così, come emozioni gridate, a disposizione di chi voglia prenderle con se.

 

Mentre torniamo a casa, e Michi mi parla di ear-training, accordi e chissà cosa diamine, io mi godo ancora l’ebbrezza di quelle note. E la bellezza di non sapere un cazzo di niente. Ma quel cazzo di niente lo suono molto molto bene… e il resto lo posso sempre imparare, che ho così tanto tempo.

Mi piacerebbe cantare stasera, finchè non ho più voce. Mi piacerebbe suonare quelle note che stasera mi avanzava di dire. E allungare il tempo insieme,che non voglio addormentarmi, voglio continuare a passeggiare con lei fino all’alba,  a quest’amante bellissima, che mi ha assassinato e resuscitato mille volte.. Io e questa zoccola, di musica.