Quello bravo

Quello bravo

Salì sull’altalena.

Spinse su allungando le gambe, ripiegandole per scendere. Storto, impacciato, slegato, ridicolo, finché il movimento non iniziò ad agevolarlo. Pian piano prese velocità, si alzava sempre giù, nell’ebrezza del raggiungere le nuvole, nell’angoscia di tornare indietro, all’inferno.

Ogni giorno così.
Pensava spesso che forse poteva saltare giù, al volo. Si chiedeva se attendere il momento in cui fosse in alto, per partire via, o se attendere mentre era in basso, bene in bolla, rischiando però di esser travolto via dal movimento. Pensava spesso, ma poi rimaneva lì.

C’è più coraggio nel rimanere a galla o a buttarsi giù? Nel frattempo le nuvole lasciavano spazio al cemento, e poi di nuovo cielo, e poi di nuovo terra, l’aria in faccia, la spinta indietro. Per un istante si vide da fuori, il suo completo buono a stropicciarsi sull’altalena troppo piccola, il polsino candido a sporcarsi con la ruggine delle catenelle, le mani avvolte e strette in paura e vertigini accumulate da mesi, da anni. Si vide da fuori, voleva abbracciarsi, voleva picchiarsi, voleva ignorarsi. Cristo, alzati da lì e fai qualcosa. Anzi no, alzati da lì e non fare più niente altro. Ma alzati, alzati da lì.

Il dondolio, senza spinta, rallentava. “Dovrei andare da uno bravo”, si disse. Hai fallito, amico mio, riprendi i cocci e smetti di romperti per i motivi sbagliati. Molla, molla, per Dio. Allenta la cravatta e le aspettative.

Ormai era fermo, in bolla. Scese al volo, incespicando, rialzandosi con quei tre passetti di corsa ridicoli di chi mente, di chi vuol darla a bere, di chi finge di non essersi fatto niente.

Le tasche erano piene di biglietti di autostrade sbagliate, altre spine che tornavano a bruciare nel petto, in mezzo il telefono. Scorse il numero, lanciò preciso il sasso, saltando con un piede solo nella rubrica, evitando i bordi delle linee dolorose. E chiamò quello bravo.

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