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Categoria: racconti

Amore mio (la storia delle amiche tradite)

Amore mio (la storia delle amiche tradite)

Si, l’aveva tradita. Quella stronza, l’aveva tradita.
Aveva bisogno di lei, le aveva aperto il cuore, e detto quello che era accaduto, quello che lui aveva detto, ciò che lei aveva pensato, ciò che aveva risposto e deciso, e tutto, tutto quello che le volava nella mente. Così, come fai con chi ti fidi davvero. Prendi una tastiera, prepari la mail, e scrivi tutto. Butti giù le emozioni dandoti delle lettere sparse, veloci, sofferenti, troppo amare per poter piangere, anche se il limite è lì, presente, e gli occhi gonfi, d’orgoglio e lacrime.

E lei, quella stronza.
Quella stronza da cui si aspettava la parola giusta, l’abbraccio, la comprensione, la compassione. O anche solo il silenzio, l’ascolto. Con l’intimità che le ha sempre legate, con l’empatia quasi irreale che le legava, anche a chilometri, a mondi diversi, a miglia di esperienze e quotidiani a separarle.
Stronza. Stronza, cosa voleva da lei? Allora è come tutti gli altri?
Ah si, è come tutti gli altri. Pensa quello di lei. Non capisce.

Ah sicuro, non capisce un cazzo.
Ma vada al diavolo. Non può fidarsi di nessuno, è sola, ma lei da sola ce la fa’, vedrai se non ce la faccio, eh.

Forse le amiche migliori son quelle che tacciono, che ascoltano, che annuiscono, che ti danno sempre ragione.
Forse son quelle che ti rispondono dicendoti quello che ti aspetti ti venga detto.

O forse, sono quelle che ti dicono cose spiacevoli, che non vuoi vedere, e affrontare. Son quelle che capiscono, ma che tu non vuoi ascoltare, e allora vuoi fraintenderle, e litigarci, e allontanarle, con quella bella bugia del “sto benissimo anche da sola”.

No, noi abbiamo bisogno di essere soli, ma insieme. Niente amori per la vita, ma tratti di strada insieme, perchè anche l’opinione di uno solo non può andar bene, ci ridurrebbe a cloni di idee, microcosmi chiusi al resto delle esperienze.
Però, per una volta, avrei voluto dirti che sei in pericolo, ma non vuoi ascoltarmi. Chissà che sia un altro, a riuscire a farlo.

Amore mio.

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ancora

ancora

Scivolò fuori dalle lenzuola, le caviglie strette ad accarezzare il limite del letto, le mani distratte in cerca di una maglietta troppo grande per coprirla dal primo brivido della mattina.
Il sole già si intrufolava nell’intimità dell’alba, inondandole la cucina di riflessi d’allegria.
Una doccia calda, caldissima, a toglierle le carezze e gli umori dell’amore, un getto fitto a pettinarle i capelli, correndole attorno al corpo ancora intorpidito. Gli occhi chiusi, senza alcun pensiero dentro. Una pace, estrema, e l’aver scordato il giorno, l’ora, il mondo attorno.

Un accappatoio caldo a stringerla a se’, il volto senza trucco come d’una bambina, a sorriderle appena nello specchio, sognante, mentre ridisegnava l’ordine dei capelli. Una giostra di sensazioni, di parole, di imbarazzo nel ricordo del suo poco pudore, quella notte. Dell’aver dato, dell’aver chiesto, dell’aver guardato negli occhi, senza ritegno. Il gioco eccessivo delle parole, il lieve osceno, la giocosa volgarità. E sciogliersi nel sonno, tra le braccia di un affetto.

Il giorno villano stava già prendendo possesso della città, come a voler rimettere le cose in sesto, volendo spegnere l’aura di sogno, riaccendendo l’ordine degli appuntamenti, l’orario dei pullman, le televisioni accese, le urla dei bambini in gioco per strada.

Si infilò di nuovo nella sua stanza, impedendo al giorno di riprendersela, cercando ancora il calore della notte sul suo posto, nel letto. E anche lui se la riprese, in un abbraccio quotidiano, ritrovando il calore della pelle su di se’. E piano, senza far rumore, le disse amore, amore, amore.. ho ancora voglia di te.

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Don’t Explain

Don’t Explain

Volete davvero che vi racconti di quella volta?

Ah, mica c’è molto da dire. E’ tornato a casa, uno dei miei mariti sbagliati, con addosso un’altra. Il suo odore, le sue carezze, i baci di un’altra, il rossetto di quel rosso che ti prende a schiaffi, stampato sul collo della camicia, una camicia bianca, candida come le sue bugie. Ma che si fotta, lui e le sue bugie.

Gli uomini pensano sempre che non ce ne accorgiamo, quando non ci amano più, solo perché non glielo diamo a vedere. Ah, ma io lo so. Mi accorgo dalle piccole cose… ad esempio, non mi menava più. Perché quando ci si mena, anche quello è amore, perchè non permetti ad altri di farlo.

Mi hanno violentata. Ero una bambina. E poi ancora, due anni dopo. E sai il ridicolo? Mi han cacciata in riformatorio due volte, come fosse stata colpa mia, proprio io che non m’abbassavo a prender i soldi con le cosce, come le altre puttane del bordello. Per quello mi han chiamata “lady”, che credevi?
Il mio primo marito mi ha regalato la dipendenza dall’oppio. Il secondo ha fatto meglio, mi ha dato l’eroina. E’ per quello che son qui dentro, la testa tra le mani e nemmeno la forza di prendere il secondino a calci. Mi son voluta difendere da sola, o condannare, ecco, meglio. Perché non so uscirne da sola, perché è colpa mia, se non so smettere con la roba, e se non so amare che bastardi, e non so essere una donna migliore di questa baldracca nera che vedo allo specchio.

E se sono sola. Invisibile in mezzo al mondo, che ti fuma pessimo tabacco addosso, si pulisce i piedi sul tuo corpo, si vergogna di te e del tuo sporco colore. E non sa proteggerti, mai, da questo maledetto dolore che mi mangia dentro.

Tremo, d’astinenza. Cerco, nella mia testa, un pensiero bello che mi aiuti ad arrivare a domani. Son ore che ci penso. Mi viene in mente solo Prez. Prez che mi carezza i capelli con le sue note, il suo sax che brilla, il fumo della sua cicca che si alza, leggero, a disegnare il blues che dovrei cantare. I nostri blues…  io, la sua sorella voce, che gioco a note come fa lui, pensandomi anche io come uno strumento che soffia fuori emozioni da un tubo.

Ma la voce non esce. Non riesco, non riesco più a cantare, qui. Qui, “dentro”.

(tratto dai testi by Laflauta, per  “THE STRANGE FRUIT – Omaggio a Billie Holiday” – giovedì 24 giugno 2010 ore 21, Cantina Fasol MeninValdobbiadene, Italy)
Strange Fruit

Strange Fruit

Lo so, chi sono.

Sono solo una dannata puttana negra che puzza di whisky.

Quella che ti vergogni a far entrare dalla porta degli artisti, e rinchiudi in un sottoscala sudicio finchè non puoi sfoggiarla davanti ai tuoi amici bianchi.

E io te la sbatto in faccia, ora, la mia anima negra, le mie labbra grosse, le mani che ti sembrano lerce, e l’odore fetido della carne.. infetta.

Appesa anch’io, come il frutto strano e maledetto, impiccata anch’io, come miliardi di me, le vesti stracciate, i corpi denudati, come la mia anima ora, mentre ti canto addosso il dolore, dolore d’essere un viscido essere nero in questa tua terra bianca.

E davanti, la tua gente bianca a guardarmi, dondolare, piangere, morire, su di un palco, o appesa ad un albero.

Tanto non la rubi, la mia anima. Non l’hanno rubata nemmeno le mani sudice che mi hanno rubato del mio corpo di bambina, o gli alberghi lerci dove mi hai costretta a darmi, anche ora che violenti solo la mia voce.

Ti sembro una scema, eh? Solo una rozza donnaccia.

Una che canta dell’amore e delle altre fesserie da femmina, con la mia gardenia esagerata sui capelli irti, i gesti goffi di una grassa drogata, dalla voce acida e sgraziata. Massì. Pensa quel (cazzo ) ti pare. 

La mia voce ti graffierà a sangue, stasera. Patirai la mia sofferenza, come una lama affilata che uccide e sgomenta i pensieri, e quando avrò finito, lascerò attorno il silenzio dopo la mia ultima nota. Perché non c’è applauso, dopo la morte.

(tratto dai testi by Laflauta, per  “THE STRANGE FRUIT – Omaggio a Billie Holiday” – giovedì 24 giugno 2010 ore 21, Cantina Fasol MeninValdobbiadene, Italy)

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la compositrice.

la compositrice.

Era l’ora. Si sedette alla scrivania, prese la matita, e iniziò lentamente a temperarla, con dolcezza. Ne’ troppo lunga, che si spezza la mina, ne’ troppo corta, con la punta troppo spessa. Gesti lenti, controllati, con la sua serenità che le faceva danzare le mani.

Prese la sua carta musica, come una terrina piena di farina e lievito, pronta a gonfiarsi di suoni immaginati.
La preparò, senza altro sotto a far spessore, disegnò una chiave di violino, con attenzione. E si ritrovò ai piedi di un sentiero, pieno di cose da scrivere, pensare, controllare, e le parti da fare, e le trasposizioni, e le scelte. Quel sano sconforto di chi ci metterà un po’ per arrivarci alla cima, della sua musica.
E senza pensarci troppo. Macchè. Ci aveva pensato eccome, ogni piccolo particolare era spuntato fuori nella sua vita normale, banale, ripetitiva, a suggerirle un accenno, un suono, una pennellata, e lei l’aveva memorizzata nella cartella segreta, quella in cui teneva i sogni, le paure, la volontà.

Cancellò. Cancellò la chiave di violino. Ondeggiò la testa, in cerca del ritmo dei pensieri, ascoltò dove cadeva il suo accento, una danza che la travolgeva, prese la matita e la scrisse, semplice, e tutto quel ritmo dentro la testa era davvero semplice da scrivere, persuasivo, indomabile. Sorrise. Siamo in cammino.

Respirò. Cercò i suoni. Li scrisse a parte in fila, il colore delle voci degli strumenti preferiti, con in testa il respiro, il respiro unico che li trasportava, e mano a mano che dentro suonavano li cambiava, come a cercare l’immagine giusta in una cartella di fotografie. Creò un tessuto di suoni, di colori, di voli. Le dita sicure sul piano, a scivolare lì dove è giusto che volino, cadendo sui punti che più le facevano vibrare l’anima. Perchè non c’è regola, che non quello che a lei piace. Non c’è teoria, non c’è logica se non quella del suono che ti rimane dentro. E chissà se è lo stesso che piace agli altri, così come non lo so se questo fiore giallo è lo stesso giallo che vedi tu, o è solo perchè ci siamo messi d’accordo che si chiama giallo…. Giallo. L’oro di una tromba che mi sussurra una melodia, quella melodia che nasce da sola, e non la sai modificare perchè esce già giusta così. Giusta, così come esce. Come esce.

E il pennello intinto della sua musica continuava a dipingere suoni, freneticamente calma.

Strutturava gli ensemble, come se un gruppo di fiati le suggerisse dentro nota per nota, non aveva che da scriverli. E tutti erano già nella testa, perfetti, e si scambiavano, e modificavano il discorso, e si contraddicevano, interrompevano, gettavano le parti per prender la parola sugli altri, in un’ordinatissima confusione.

E i clacson dell’incrocio del mattino, la voce della vicina a chiamare i figli per cena, la televisione che chiacchera mentre la teiera fischia, il cancello di casa, l’obliteratrice del pullman. E il vento tra gli alberi, e la laguna silenziosa e liscia, e i respiri addormentati del suo amore immenso. Gli occhi puri di un bambino, le sue ciglia lunghe ed attente, la pace di un gatto appisolato sul letto, la luce della domenica mattina tra le fessure del balcone. Tutto era già stato ascoltato, e si metteva insieme magicamente, senza incrinarsi, senza scontrarsi, senza prevalere, senza gridare.

E raccolto tutto, arrivò alla fine, a metter due staghette, una sottile, una più spessa. Controllò, corresse, aggiungendo, togliendo, misurando, come se un quadro immaginato fosse ora lì davanti a lei, silenzioso solo per chi non sapeva ascoltarlo.

Appoggiò la matita stanca, chiuse la carta musica. Sentì tutto dentro di se’, svuotato. Come se ormai nulla le fosse rimasto, di quelle note.

E si svegliò, in un mondo normale.

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La Luna Splendente

La Luna Splendente

Ti vedo

lì nel cielo notturno

e sento che canti tante melodie

te ne stai lì tranquilla

ma non mi parli,

sogno una serata romantica,

spero di vederti ogni sera.

by Gabriele

insopportabile

insopportabile

Svuotata, abbandonata dai suoni e dai suoi investimenti. La maestrina percorre la notte gelata, piano, con addosso una coperta stanca di emozioni.
Il mondo l’ha salutata prima, lasciandola sola a tornare a casa. E lei ha salutato il mondo, per tornare a casa, sola. Una solitudine che la strozza, la schiaccia con crudele foga, infischiandosene dei suoi bisogni, ed è insopportabile.

Le auto le scorrono accanto, le altre vite le passano accanto. Il mondo la chiama, ma il telefono sta lì nel sedile a fianco, la luce azzurra di un inutile messaggio, ma che m’importa.
Piano, guida piano, taglia in due la notte deserta, riempiendola delle sue domande, che una dopo l’altra escono dalla mente, riempiono la macchina, la strada, il paese, l’aria. E premono. Premono a farla impazzire. E allora piange, silenziosa.

E’ angosciata. Stretta da muri di obblighi, senza il pavimento di un amore, senza un tetto a proteggerla dagli eventi.

La maestrina ha troppo da pensare, ha impegni, appuntamenti, riunioni. Ha tutto compresso nelle 24 ore, per non darsi tempo di pensare. Ragionare fa male. Fa fare errori, debolezze.

 – E’ che quando si smette di amare, rimane un vuoto. E l’eco che suona in quel vuoto, è insopportabile.

La maestrina srotola i chilometri, sbatte in un flipper tra storie sbagliate, e nessuno le entra dentro. Ed è… insopportabile.

bar borsa

bar borsa

– Buongiorno, mi dica, caffè? Liscio? si accomodi intanto…

Lavoro al bar Borsa, in piazza Municipio. Saranno… diec’anni ormai. Doveva essere solo un periodo, per avere i soldi della patente, poi è morta mamma e son rimasta qui. Prima qualche ora, adesso apro alle sette e chiudo io alle ventuno. Non è che son abituata a parlar di me, eh. Io lavoro, ecco, come gli altri.

La mattina ci sono quelli del comune, e dei negozi. Faccio i caffè, cambio le briosche quando finiscono. e poi faccio i tramezzini. La prima volta mi veniva la nausea a farli alle nove di mattina, ma ora sono abituata. Con un tuorlo d’uovo  e un litro di olio faccio la maionese, faccio un buco sulla lattina e scende il filo piano piano.

Ormai da che tramezzino scelgono, capisco che persona ho davanti. Il tonno e uova è di quello che ha bisogno di energia, il prosciutto e funghi per chi ne sceglie uno a caso, il pretenzioso vuole quello in salsa indiana, piccante, mentre la signora a dieta prende solo mozzarella e pomodoro.
E allora penso perchè uno pretende tanto, perchè una è sempre a dieta. Immagino che lavoro fa, se ha famiglia, se ha un amore. Che quando sei al bar mica reciti tanto bene, si vede subito se sono felici o meno.

Ogni tanto passa a bere lo spritz qualcuno che mi fa la corte. Se la mattina mi trucco è per questi qui, che mi fanno sentire ancora una ragazza. Perchè ormai, non ho più un uomo da tanto tempo.
Da quando ho trovato il mio fidanzato con una nigeriana, a casa nostra, non ce l’ho proprio fatta. Piangevo sempre. Era un bravo ragazzo, era solo una sbandata, però quando l’ho trovato con quella lui non si è giustificato, non mi ha rincorsa, non è come nei film. E poi ho trovato uno in discoteca, ed è stato così squallido in macchina, che non ho voglia più di niente.
Si ho trovato uno, va beh, passa sempre qui a farmi complimenti, ma è sposato. E io non le faccio quelle cose. 

Si dicevo, piangevo sempre. Qui al bar, scappavo dietro e piangevo. Finchè il capo mi ha preso a schiaffi perchè ero ridicola, ha detto, e per paura che mi mandasse via ho smesso. Però piango dentro. Piango sempre. Ma sorrido lo stesso, e adesso mi trucco e mi faccio bella, e ci metto tanto amore nei miei tramezzini.

Nel pomeriggio c’è calma, arrivano solo i vecchietti a bere il caffè, e gli devi girare il cuccchiaino con lo zucchero, e vengono tutti i giorni, finchè li rivedo solo nella foto dell’epigrafe qui fuori.
E poi passa anche la maestra di canto, arriva con la musica nelle orecchie, mandando sms in continuazione, leggendo il gazzettino e mangiando un panino, col crudo. Appoggia la borsa col computer, e cerca il portafogli in mezzo a mille carte e cavi. Ci diciamo due cose, proprio così. Che lo so che i clienti parlano con te, ma non sono tuoi amici, di te mica gli frega.
Però dicevo, ci diciamo due cose.
Mi ha detto che è bello lavorare in bar, vedi le vite degli altri che ti passano intorno, e qui si ristorano, cercano una parola di conforto, soprattutto nella pausa pranzo in solitudine. Io volevo dirle della mia teoria dei tramezzini, ma sarei sembrata scema.

Ora torno a lavorare, devo pulire la macchina del caffè, che si chiude. Nel freddo della mia città penso che in fondo, non sono solo una macchia sul mondo. Servo anch’io, a preparare un panino col crudo, a girare il cucchiaino del caffè di un pensionato. O forse no, ma stasera la penso così, che mi fa bene.

nessun titolo

nessun titolo

Le immagini della sua città fuori dal finestrino, e l’ansia che le aggroviglia i visceri. L’autista del taxi non dice una parola, nemmeno la radio a metterla a suo agio. Un notiziario monocorde cerca di rapirle i pensieri verso il presente, ma la sua mente si ribella. Via, via di qui, alla svelta.

Lo svincolo dell’aeroporto, quattro banconote al taxista e appoggia lo stivale sul marciapiede. Una borsa con un cambio, la bretella rigida  le tira i capelli, intrappolati nel velcro, il pesa sulla spalla. Entra nella hall, cerca indicazioni per il check-in, sistemandosi la giacca per sembrare quantomeno a suo agio, se non presentabile. La hostess confronta la voto del passaporto col suo volto, lei alza il volto e la fissa, con sfida. Voglio starti sulle balle, si, così non mi dirai nulla, niente conversazione, niente "buon viaggio". La hostess aggiusta il foulard, fa saltellare sulla tastiera di un pc due dita dalle unghie laccate pacchianamente, e contraccambia l’acidità riducendo al minimo i verbi. E con sdegno, glielo dice, "buon viaggio".

Acquattata accanto al finestrino, non legge nulla, non ascolta nulla, ebbra dei suoi pensieri, delle sue visioni. Deve trasformarsi in quel vetro satinato, impenetrabile, oltre cui non passa nulla. Il vuoto, la rabbia, il desiderio di piangere e gridare, disperarsi, tutto rinchiuso in una scatola sigillata, a prova di implosione.

Vi prego non chiedetemi nulla. Lasciatemi guardare la mia vita laggiù, sparire in cumuli di fumo e nuvole.

Il vuoto d’aria dell’atterraggio, una leggera scossa d’adrenalina che ha sempre messo una lama, tra un addio e un rieccomi. Il primo sms, sono fuori al parcheggio, Suv azzurro, fai presto.

Si guarda attorno, come se il mondo la vedesse, sapesse, la fissasse. Come se un’immensa etichetta le fosse cucita addosso. Raccoglie le sue legittimità, strafottente, vede l’auto. Può tornare a casa. Tenersi un briciolo di dignità, maturità, fedeltà. E ci pensa, si che ci pensa. Ma il passo rimane deciso, nessuna incertezza.

Bussa sul finestrino, sorride. Basteranno poche ore, e quelle mani addosso non daranno più fastidio, quei baci saranno più convincenti, la risata di circostanza sarà più convinta. Basta rilassarsi, perdiana.

Aprendo gli occhi, un soffitto colorato, di mille camere d’albergo tutte uguali, da questo a quel lato del mondo. L’odore di buon sesso che scivola via sotto la doccia, acqua purificatrice che segue il contorno del volto, a lisciarle i lunghi capelli, ad accarezzarle i fianchi. Le domande fanno capolino, chiedono, urlano, voglion spiegazioni, ma son cacciate via. Il volto struccato le mostra la versione delle sue vendette, di cui solo il suo orgoglio verrà mai a conoscenza.

Sale in auto, sai ho un convegno, un’importante riunione, davvero sono già in ritardo, ma ti chiamo, eh, ti chiamo. Lei finge di credergli, e anzi, spera che proprio non richiami. Lo vede in lontananza, togliersi un capello dalla giacca, e fissarne ogni altro lembo, che non si sa mai. E sorride, che quel gesto lo ha visto fare da tutti quelli con cui aveva condiviso un’ora d’amore.

L’hostess le sorride, bella giornata eh? Le risponde il suo sguardo, con sottotitoli chiari: fatti i cazzi tuoi.

Risale sull’aereo, guarda fuori, ancora. Fine della parentesi, si riprende la solita vita. E tra le nuvole, si risveglia dal limbo delle sue vendette. Prende una rivista, la sfoglia, respira. Un sospiro che getta via le tensioni, l’antipatia. E nello stupore dell’ennesima hostess, si scopre ad esclamare a gran voce "..ma come cazzo si fa a comprarsi un suv azzurro….".