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Categoria: racconti

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Salve, son Giulio. Io faccio il dipingitore di strissie.

Che lo dico ai miei amici, non son mica uno stradino, io sono un dipendente dell’anas. Ma ho la specialisasione, sono adeto alle strissie. Io dipingo la linea di meserìa.

Sono l’ultimo di quatro fratelli, due lavorano in germania da diese ani, sono nel campo dei gelati. Una volta tuti andavano in germania a far gelati, era un lavoro duro, ma serio. Li poi si son trovati due germaniche, e si son sposati e hanno fatto i putèi. Io e il Nane, mio fratello medio, siamo rimasti a casa. Lui gli piace studiare, è ingeniere lui. E’ tutto conti e robe serie.
A natale ci ritroviamo dalla mama, con mia sìa e i nevodèti intorno, e i miei fradei intorno al pandoro parlano di cose serie. Mutui, politica, a volte ascolto, ma non capisso gnente. Preferisco stare coi nevodèti, e gli monto i giochi e faccio le costruzioni.
Tra tuti me piase Lorenso. Lorenso è il figlio del fradeo gelatiere, ha diese ani. Lui mi spiega tante cose, come funziona il compiter, ad esempio. Mi ha fato disegnare, col compiuter. Però no vien ben come a mano, ma hai tanti colori, e puoi spruzare come la bomboleta spray.

Oggi porto Lorenzo con me al lavoro. Mio fradelo non era dacordo, dice che prende fredo e si anoia, ma poi si è messo a parlare di berlusconi e prodi e si è dimenticato.

E’ seduto nell’ape vicino a me. Io sono emosionato, di solito son da solo. Gli spiego che nei paesini non è come da lui, qui le strissie le faciamo a mano. E devono essere liscie, precise, perchè quando viene el caigo, la nebbia forte forte, la linea in meso alla strada guida tutti. La strada si chiama caregiata, gli spiego, e bisogna sapere quando fare le linee trategiate o meno. Se trategi l’interno si può superare, ma mai prima de una curva all’interno, nele curve si mette quela doppia così risolvi. Poi devi vedere se uno può girare, e alora trategi perchè uno entra magari nel cancello di casa sua. Bisogna sapere un sacco di cose, dipingendo le strissie.

In paese c’era un semaforo. Dovevo fare le frece per tera. Non avevo lo stampo, e alora le ho fate a mano, vedessi, sembrava un capolavoro. Poi è arivata l’europa, che ha deto che bisogna far le rotonde. E bisogna far i triangoli per tera, per la precedensa. A volte non ghe stèmo, bisogna farle picole perchè lo spazio è poco.

Il momento più belo è quando togli i coni rancioni. Li togli e apro la strada, e tutti invece che girarti intorno seccati, provano la segnaletica. Perchè deto in cìcara, deto come dicono i funsionari del comune, si dice segnaletica. E vedi tutti, anche i foresti, che seguono le indicazioni che ho disegnato io sull’asfalto. Si fermano allo stop, ripartono, si danno la precedensa. Tutti beli ordinati, in fila, seguendo le mie strissie. Ci pensi Lorenso, se non facessi più le strissie?

Un anno ha nevicato fisso, era tutto bianco in tera. E le strissie non ghe géra più. Vedessi, tutti persi, un casin. O quela volta che c’era el caigo, la nebbia forte che ti dicevo prima, tutti andavano piano e seguivano la linea di meserìa, che si chiama così perchè è quela che sta in mèso a la strada. Tuti piàn, e la mia linea, la mia opera che guidava le loro vite sensa che andassero fuori da la strada, se non ci era la strissia andavano tutti nel fosso, sai.

Lorenzo mi dice che io sono un artista.

A mi me par che esagera, io disegno solo le strissie. Ma lui dice che sono un artista, e un po’ poeta, perchè guido le vite degli altri, anche gli avventori dei nostri paesini, che sarìa i foresti. Mi ‘conta che ci sono i Madonari, che dipingono per tera i disegni coi gessetti. E sembrano veri, sembra di essere all’academia, e son quelli di gioto, di leonardo.
E lui dice che son un artista anche io, perchè i madonari disegnano ma poi piove e non serve a gnente. Io invece guido le vite degli altri,  meto amore nel mio lavoro, meto il cuore. Lorenso me lo dice, e io mi sento importante, che Lorenso ha visto il mondo e suo papà è gelataio importante in Germania.

E quando semo rivati a casa, mi ha portato alla cooperativa in paese. E ho comprato i peneli picoli e i colori con le tempere. Mi ha deto che il mio cuore è grande, e posso fare i disegni sui fogli grandi, quelli Pigna, e fare le mostre.

E alora mi son messo a fare il primo dipinto. Ho colorato tuto di nero, e poi ho fato una riga, in meso, drita e bianca. E non è lo stesso, perchè non ci sono curve, sul foglio della Pigna, e non serve a niente. Ma a Lorenso non l’ho deto.

 

Mediocre

Mediocre

 Come da tradizione, ilmio postsottol’albero2006.
 
 
         No no guarda, non hai capito.
 
Con un dito spinse più su gli occhiali da vista.
S’era preso pure il giorno di ferie. Aveva concluso le commande da qui al 2027 giusto per non aver la coscienza sporca, aveva comprato un bagnoschiuma al vetiver, che dicono faccia molto macho, sconfessando la fede per il pino silvestre, troppo da arbre magique. S’era fatto la barba in giù, in su, di lato, per poi passare un leggero foglio di carta vetrata su eventuali ruvidità mandibolari che gli fossero sfuggite. E aveva messo pure il gel. Per tre volte. Sembrava un budino.
Aveva cancellato tutti i 6 messaggi del cellulare, doveva esser lindo pure quello.
 
         no senti, non ci siamo proprio..
 
Aveva speso 15 euro per far pulire l’auto a mano. Che le spazzole strisciano la carrozzeria, e lui alla sua Punto ci teneva. Era vestito di tutto “punto”, d’altronde, con pure una cravattina della domenica che gli stava a fagiolo. Resisteva pure col primo bottone della camicia allacciato, all’inizio.
 
         te hai fatto tutto da solo. Ma figurati se io….
 
Insomma, era materialmente impossibile che lei non lo notasse: era razionalmente perfetto. L’uomo ideale.
 
         …se io mi metto con un ometto mediocre come te.
 
E adesso cosa faccio? Guardava il volante della Punto. Lo stemmino della fiat così elegante, così ex-fascio. Le linee essenziali, scarne di ridicoli e inutili vezzi. Solo in quell’auto, senza una diavolo di autoradio gracchiante. Aveva comprato pure una scatola con un’orchidea, con dentro la cannuccia per tenerla in acqua. I cioccolatini eran troppo retrò.
Lei rideva, dopo averlo malamente scaricato, e brindava con gli altri colleghi, che se la baciavan tutti, la troia, sotto il vischio. Continuava a tirar su gli occhiali, che scivolavano sulla parete sdrucciolevole del naso. C’era una conca unica, dalla fronte alle narici, sotto la neve diventava un trampolino per olimpiadi invernali di formiche.
 
Stava uscendo, lei. Si raggomitolò sotto il volante, per non farsi vedere. E lei, accortasi, ululò un grido incazzato. I colleghi pettegoli intorno, a passar col dito su quello sfregio, a guardarsi intorno. Sarà stato un balordo, un extracomunitario, uno che non sa parcheggiare.
 
D’un tratto, un fascio di luce sul parcheggio, ad illuminare come l’occhio di bue la Punto. Scendendo con decisione da primo della classe, guardando dritto per non far scendere gli occhiali, facendo trillare un mazzo di chiavi affilate davanti alla giuria dei colleghi.
 
Voleva dirle che era da mediocri lavar la macchina all’automatico, striscia la carrozzeria.
Ma ormai non lo guardavano più. Se mai l’avessero guardato.
 
Era solo un mediocre pastorello, innamorato della Madonna.
 
 
 
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Rigira tra le mani un amore.
L’inutilità delle parole, dei compromessi, della contrattazione, la sfinisce.
Mentre lo manda via, lascia la porta aperta, e scuse e occasioni per ricominciare, per voltare pagina, per aggiustare le cose. E più ci prova, e più smette di crederci, di averne voglia.
E’ la lenta agonia delle storie che finiscono. Uno tace, lascia passare il tempo, come se tutto fosse immutabile.

L’altra propone, grida, implora, caccia via. Nel mare del silenzio, e di tutte le parole che son già state dette, non c’è spazio per nulla.

Lei guarda la finestra, e gli occhi le si inondano di rabbia. Ha cercato di opporsi all’ennesima storia fallita, ha cercato di crederci, di aggiustare i pezzi, dimenticare, dimenticare, perdonare, perdonare, ricominciare, implorare un solo gesto. Nello squallore del sesso, prendere il piacere come merce per ferirlo, e addormentarsi vuota.
Ci credo solo io, si diceva. Non serve a niente, ripeteva. Ma il coraggio di provare altrove, ancora, e fallire con un altro, ancora, non c’era più.
Che tutti gli uomini sono uguali, che ogni storia è identica, che bisogna adattarsi, per non rimanere soli. Quando invece, la solitudine più feroce è quella di fronte al silenzio di chi ami.
O credi d’amare. Perchè è impensabile non amare più, si ripete, non potrei vivere senza amare.

Come fosse automatico. Ti svegli, e ami qualcuno; smetti di amarlo solo perchè inizi ad amarne un altro. Magari.

Lui intanto guida, verso la routine della sua vita, incapace di reagire, troppo pigro per voler decidere per primo. Sopporta le scenate, in silenzio. Non lo sa proprio cosa dire. Non vede l’ora di fuggire, che non capisce perchè lei lo stressi tanto. Poi, è devastante, mi tratta malissimo. Lasciamo le passi. Che tanto le passa sempre.

La neve scende, infierisce sui colori, uniforma i paesaggi, cancella le forme. Tutto rimane immutato, nella neve fresca, immobile, come quel tempo in cui tutto si sospende,in cui nulla si risolve, nulla si costruisce e nulla si distrugge. Forse verranno tempi nuovi, che romperanno il silenzio.

Lei asciuga gli occhi, si maledice per aver perso tempo, per l’ennesima discussione inutile. Quando smetterò, ripeteva. Quando finirò di provarci, di dargli l’ultima occasione.

Forse, oggi. 

il duello

il duello

Misero, era misero.
Nessun altro aggettivo, se non spregiativo, insultante, rabbioso.
Disprezzo che pulsava nella mente, mentre da lontano lo sentiva entrare nella stanza.
Nella mente il vuoto. Tutto aveva perso motivo d’interesse, c’era solo un obiettivo, eliminarlo. Per ciò che aveva fatto, detto, scritto, per ciò che rappresentava ai suoi occhi: l’arroganza del superiore.

S’era finto amico, per ferirli meglio: uno ad uno, li aveva sciolti dalle riserve, fino ad aprirgli la giacca ed offrire il petto alle coltellate. Senza sensi di colpa, sostenuto dalla frustrazione di non sentirsi all’altezza, di sentirsi inferiore agli altri piccoli soldatini. Soldatini da calpestare, perchè non obbedivano.

Lei era l’anarchica. Troppo presuntuosa per sopperire a comandi deboli, troppo sicura di se’ per farsi demolire dalle minacce. Nuotava nelle certezze della ragione, la sua coscienza linda e ciò che aveva costruito erano una corazza inscalfibile, una reputazione vergine di ogni colpa, inattaccabile.

Ora basta, si disse. Aprì il cassetto della scrivania, killer freddo e preciso, prese il telecomando e definì la vendetta. Medioevo, disse. L’epoca del sangue.

Salì in sella, nel tintinnio dei pezzi d’armatura.  Abbassò la visiera dell’elmo, pareggiando le redini e controllando di non frenarle in alcun modo. Lasche, le lascia lasche. Non dovrà aver tentazione di fermarsi…perchè di fronte lui la guarda, con la vacua convinzione che si fermerà. Alzò l’asta a fatica, si mise in posizione. Attese con calma il segnale, attorno un rumore ovattato di nulla.

Speroni, poche falcate, e lo sguardo che non si abbassa. Ne’ ora, ne’ mai. Il lungo braccio di legno appuntito coi suoi colori, vibra nella velocità del galoppo, teso, senza indugio. E ferisce. Trema di rimbalzo per il colpo contro il costato del suo nemico. Lo manda a terra. Un tonfo sordo nel terreno, una nuvola di polvere e sangue.

Alla fine del campo, recupera le redini, si ferma, si volta.

– Oh, taci che se n’è andato. Che odio, non lo reggo più. …oh, fla….fla!!

Chiude il cassetto, e prende la cucitrice. Mette punti nell’aria, arma pericolosa solo per qualche foglio bianco.
– L’epoca sbagliata, mannaggia.

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Scende dalla macchina, un’ondata di gelo mattiniero la investe, stordisce.
Mamma le alluga venti euro, metti che ti serva qualcosa. Mamma che ha gli occhi rossi, il trucco di ieri ancora addosso, la matita nera sbavata, i capelli che implorano cure,e un vecchio pile addosso che la trasforma in qualcosa di insignificante. E lei sente pena.

Ieri sera papà è arrivato tardi a danza. Solo dieci minuti di punte, ma fanno male. Un dolore che sopporti finchè non ti si atrofizzano le gambe, e le muovi come fossi un automa. Tutta un tirare, dalle mollette sui capelli, al body troppo piccolo, a quelle dannnate punte. Le gira la testa.
Papà sarebbe un buon ascolto, ma papà è lontano con la testa. La passa a prendere, ma appena lei inizia a raccontare, lui alza il volume della radio. Ce l’ha con lei, ce l’ha col mondo. Papà sta con un’altra.

Non lo sa se dirglielo a mamma. Sono il mondo dei grandi, nonostante i suoi 17 anni vedano tutto. Il dolore freddo, le curve della statale, casa non arriva mai. Papà manda un messaggio. Giulia sente la rabbia salirle in testa, si volta, guarda fuori. La nebbia s’appiccica sul vetro, il riflesso del nulla a svelare il suo imbarazzo.
Poi lui, lui si ricorda d’un tratto d’essere li con lei: e inizia, inizia la solfa su Marco. Marco che è troppo vecchio, Marco che la abbraccia in pubblico, e lei chi si crede di essere, già donna forse?.. E Giulia scoppia.

Papà perchè non parliamo di te. Papà che non ci sei mai, papà che mamma piange ogni sera che non vieni, papà che ti ho visto che fai lo scemo con le altre, papà che non pensi a noi e non ci rispetti, papà sei un bastardo.
Le parole sono ancora nell’aria dell’abitacolo, un semaforo rosso lascia il tempo per uno schiaffo. Forte, bollente, dilania l’orgoglio, la fiducia. Lui che la chiamava Giulietta. Lui che con uno schiaffo, si dichiara colpevole.

Rinchiusa in camera, l’ipod nelle orecchie, odia il mondo. E quella famiglia, che è poco famiglia. E quelle punte, che dieci minuti sopporti, poi inizi a impazzire.            

Scende dalla macchina, un’ondata di gelo mattiniero la investe, stordisce.
Mamma fa manovra, e riparte. Giulia entra in classe, come ogni giorno. Incapace di dire la sua, impotente per poterla sviare, quella sua vita.

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Esco di casa, e sono in coda. Se c’è il vigile al semaforo, magari fa passare la corsia di svolta a sinistra più celermente. Altrimenti si attende. Metro dopo metro, disappannando il parabrezza, riempiendosi le labbra di strati di burrocacao, disquisendo di filosofia con l’ottenne.

Poi si passa, si dribbla il pendolarismo prescolastico, si scarica al volo il nano davanti all’elementare e si rientra nel girone infernale. Una lunga, noiosa, estenuante coda che attraversa la città isterica.

L’unico punto è quello. Per giungerci ci vogliono 5 semafori e 5 code. Ma poi si arriva. Freccia a sinistra e ci si immette nella griglia di partenza: il cavalcavia della Vempa.

La via giusta per Marghera è la corsia di destra, che coincide nel primo tratto con la svolta per la stazione. Molto traffico confluisce  ma devia di là, e comunque rallenta il passaggio del semaforo.
Al centro devi controllare quante auto ci sono, e soprattutto se davanti c’è il "tappo", che ti vieterebbe manovre audaci di sorpasso e rientro sulla destra.

Ma i Veri prendono quella a sinistra.

Io sono una Vera.

Controllo e valuto gli avversari: in corsia 1, sulla destra, lunga fila di auto, di cui in testa un’utilitaria con signora quarantenne con entrambe le mani sul volante, busto inclinato in avanti, occhiale imbarazzantemente ampio e sguardo non del tutto pronto allo scatto.
Bene.

In corsia due, al centro, controllo i concorrenti: un paio di suv, qualche mercedes, un pullman. E davanti a tutti, quasi nascosto…si, c’è: il tappo. Il furgoncino di operai a cottimo. Ce la posso fare.

In corsia tre, davanti a me, voglio essere ottimista: una punto nuovo modello. Dentro, sembra un pendolare, speriamo sveglio. Con opera di telepatia (e accelleratine propedeutiche) lo tengo sull’avviso, incentivandolo allo scatto. Mi concentro. Posso farcela. Cinquecento metri ed è fatta.

Lampeggia il semaforo pedonale. friii tuuu uannnn…. Verde.

Spingo con la forza del pensiero l’AmicoDellaPunto. Oltrepassa il furgoncino degli operai, bene, prosegue dritto, io scatto sulla destra, davanti alla manovalanza motorizzata. Uno è fatto. Con destrezza calcolo il varco tra il secondo e il terzo, ma poi mi dico…è giunto il momento di osare. Si.

Scalo in seconda. Controllo i movimenti e i respiri dei posizionati in corsia uno, e punto a lei, la quarantenne indecisa. Ce la posso fare. Siamo affiancate. Lei si volta e mi guarda: è il momento. Le lancio l’OcchiataSgradevole, e lei cede, esterefatta dall’audacia, dalla cattiveria, dalla superiorità della manovra. Poco più in là la curva secca a destra, che scende per il cavalcavia. Ce la posso fare.
Affondo l’acceleratore, sterzo a destra e lei, indifesa, non reagisce, non accellera, ormai le sono davanti.
Alzo la marcia in una terza sborona, poi una quarta, e si, arrivo alla rotonda, e le sono davanti.

Nuovamente in coda, ma diamine, prima.

Son soddisfazioni.

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Entrò in silenzio in una casa di cristallo. Tutto trasparente, tutto invisibile.

A tratti il riflesso dei suoi pensieri intorno, la turbava. Inciampava, sui ricordi.

Si sedette su di una sedia, davanti ad un vecchio televisore a valvole. Come quello in cui da bambina guardava i primi cartoni in bianco e nero. Azionò la manopola, primo canale, secondo, le immagini della sua vita miste al ronzio del fuori frequenza, senza riuscire a metter bene a fuoco.

Avanti, indietro, troppi programmi, troppi canali, troppi ricordi, ancora inciampava, ancora ci sguazzava dentro.

E allora spegne. No, non spegne. Sta lì, col dito a mezz’aria, aspettando di premere l’off. Aspettando di aver sufficienti palle per premere l’off. Aspettando di non aver più una briciola di rimpianti dopo.

Aspettava ferma, un centimetro avanti, un centimetro indietro, indecisa, sospesa in un limbo di paura e pigrizia.

Si spense la luce,  e lì da apparire un paio di secchi di pittura bianca, una salopette demodé e una parete da inventare. Una pennellessa nuova, senza vecchi colori rimasti dagli anni prima, e destra, sinistra, il gesto sicuro e placido del rimettere a nuovo la propria casa, quella che aveva addosso. Qualche ora di lavoro, un istante ad asciugarsi il volto dal sudore misto a tempera, e gli ultimi ritocchi. Appoggiò in terra secchio e pennelli, osservando con dovizia il compiuto.

D’improvviso l’abbraccio di un bimbo che corre in un prato, e il sorriso dell’uomo che amava, a travolgerle i pensieri, a portarla a giocare ad un gioco nuovo. Per mano, a piedi nudi sull’erba, tutto daccapo.