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Le scelte sono tante.

Potrei continuare a vedere il mio fegato sublimare in un Gormito.

O prendermi martello e chiodi, fedeli amici, e piantarmi in un punto preciso, che basta con sti alti e bassi. Con "okay dai che hai vinto, è finita, vai così, happyness tugheder forever, forza amici, trenino, su le maniiii!!" e l’istante successivo, quello della telefonata-mail di avvocato, consulente di parte, dirigente, o quella (mancata!) dell’ultimo coinquilino del mio letto, che procura quell’aggrovigliamento di viscere molto simile a quando si faceva quell’innocente giochino con l’elastico, con le mani, e si finiva aggrovigliati mortalmente al brufoloso vicino di casa con l’alito da gorgonzola altoatesino. Che va ben morir, ma non così.

No, le scelte non sono poi tante.

O mi procuro un bazooka e faccio fuori un po’ di gente, o faccio….faccio spallucce. E me ne frego.

Giuro, giuro, sto cercando il lato positivo. Giro la sfera e appena vedo un minimo riflesso felice mi fisso, e mi dico okkey, okkey, adesso vedrai che s’allarga, vedrai che invade il resto della sfera, e i guai si dissolvono. Massì.

Macchè.

Idee?

 

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E’ strano, non sento dolore. Solo un colpo rimbomba nel mio cervello, con un riverbero da basilica vuota.

Chissà dove m’ha preso.

Ma no che non mi ha preso. Son ferma qui in piedi.

Penso ai telefilm, alla pallottola che entra nelle fasce muscolari, le trapassa una ad una. Le pareti del corpo rosacee, fibrose, colonne liberty di una casa Milà qualsiasi, pian piano frenano la corsa, bruciando tutto al passaggio come lama calda nel burro. Si ferma da qualche parte, e sta là. Là ferma.

Le voci sfumate attorno. Luci pastello, si confondono l’una sull’altra, come le immagini che sbiadiscono, si stemperano nello sfondo. Voci del passato, voci della mia mente che trapassano quelle attorno.

D’incanto non serve che ti dica niente. I discorsi sono inutili, la rabbia si scioglie come quelle coppe di gelato sfuso, che corri a casa sotto il sole per farlo rimanere su. I miei buoni propositi, le mie frasi ad effetto, la quadratura del tondo, la logica dell’aver ragione. E’ panna che si smonta. L’oceano del tempo si ingoia il presente.

Mi crollano le gambe. Sento lente  le ginocchia che si piegano, battono in terra, in un rallenty romantico. Rimango ferma così, con una pace nuova, immensa, che mi solleva dalle ansie. Adesso basta, è conclusa la corsa, andranno avanti gli altri, io ho finito. Finito.

Il cuore batte lento, maestoso, rallenta come in un finale pomposo, wagneriano. La morte di Isotta, ah si, il maestro che alza la bacchetta verso di me, e il solo del flauto che s’alza sopra il caos degli archi. Quelle poche note, struggenti, alte, messe lì al posto giusto per squarciarti le emozioni in mille briciole.

Le ginocchia si allungano. L’inerzia mi spinge giù, verso il parquet, e sento piano la spalla caderci, rimbalzarci, portando la mia testa appresso. Sembro un pupazzo, torno su e crollo un’altra volta. Non sento nulla, nemmeno la sensazione del legno sul corpo, il liscio contorno del pavimento, le liste diagonali un po’ consumate dove ho camminato per anni, ballato, strisciato, amato.

Con la testa sul pavimento, guardo fisso l’angolo della parete che abbraccia il soffitto. C’è l’ombra scura del calorifero sotto, l’ombra di un quadro, e tutto fermo. Che assurdo. Fossi in un prato, vedrei il verde, gli alberi, o un cielo azzurro. O crollerei sotto la pioggia, con lacrime dolci ad accarezzarmi. E invece qui, a pensare che quando ho scelto zafferano, sceglievo l’ultimo colore che avrei visto. Dovrei ridipingere. Dovevo. Faranno.

 

Dovrei chiudere gli occhi, mancano poche battute a questo finale. Lo sto tirando lungo come Mussorsky, sui Quadri. Un movimento intero per finire, esagerato, lo penso ancora. E’ bello, è dolce star così. Non sei di là, ma non hai più le noie di qua.

Voglio sentire l’ultimo odore, eppure sento solo fumo di metallo, l’aria chiusa di questa casa, e polvere.

 I timpani rallentano, il mio cuore con loro. Un bolero che raggiunge il suo picco, e si lascia cadere, sull’ultima nota. Il silenzio dopo l’ultima nota. Chiudo gli occhi, spengo la luce.

Non sento applausi. Non più, qui.

cinque minuti

cinque minuti

In cinque minuti.

I miei incubi durano pochi battiti di ciglia. Mio fratello mi chiama, mi dice che mio padre è morto. E io mi squarcio. E secret, secret per cui ho altrettanti sensi di colpa grattacieleschi. Incubi che sbocciano nel sonno, frutto di ansie, di nervi ormai fuori dal controllo.

 

E in cinque minuti, scendi dal van, ti volti e impazzisci. Guardi il destino che si porta via quel ciglio di felicità. E non puoi fare un cazzo, solo guardare, e parlarne ora, come un automa.

Ti chiedi che vuol dire. Perchè c’è un perchè, deve esserci. Chissà a chi ho fatto così tanto male da meritarmi questo.
E adesso cosa faccio. Mollo, vado avanti. Intanto ho comprato due spazzole oggi, fla. E’ bruciato tutto.
E non so dirti che mi sento male perchè l’ho perso. Sono cinico, non so esprimermi, non faccio mai vedere il cuore, come se non l’avessi. Insomma. Ci provo. Mi viene male oggi.

Sei come me, diamine, sei come me.

 

E io, amica lontana e perennemente parassita di tuoi consulti, non trovo in tasca una sola frase intelligente. Ti propino frasette fatte, proposopea inutile, che cazzo posso saperne io di quel che provi tu.
Non so aiutarti, consolarti, abbracciarti.

 

Sono idiota. Idiota a non riuscire a vivere, a mettermi tranquilla. Che tutto brucia, in cinque minuti. E lascia l’odore acre dell’incubo, addosso ai vestiti, addosso all’anima.

 

…e chissene dell’armadio….

…e chissene dell’armadio….

 

Tra quindici minuti sono li, signora, li ho appena avvisati, mi han detto. E io sto affacciata al balcone, con la camera semisgombra, aspettandolo, con la gatta a farmi le fusa. Lei non sa che è finito il decennio di cabinarmadio, adesso ci saranno le ante, le ante scorrevoli, et adieu peli tricolori sui miei maglioncini di cashmere.

Arriva. Parcheggia. Scende. D’un tratto, tra le nuvole, un fascio di luce illumina la portiera del furgone, un arcobaleno illumina una testolina di riccioli spettinati che dal finestrino controlla la retromarcia. Preciso, si infila con grazia a fianco del cancello. Lo saluto.

Tutto solo, dico, tutto solo.Tre metri di armadio, e non ha bisogno d’aiuto, che uomo, che uomo. Carica le varie pareti, pesantissime, sulle spalle possenti.  Le alza con una mano, le carica sulla schiena e fa le scale, ed entra in casa mia. Preciso, si infila con grazia nella porta…. si….mio adone, la camera da letto è lì… ehm.

Il mio talamo fa l’occhiolino, mi dona pensieri impuri.

Ha una maglietta che gli strizza due pettorali che manco il serbatoio della Yamaha di Rossi. Dei bicipiti in tensione per tenere i montanti dell’armadio, marò, lisci come marmo, con le vene azzurre a tatuargli la prestanza. Preciso, infila tutto nella mia camera da letto, dove lo sognerò per chissà quante notti, e inizia a montarmi…L’armadio, diamine, l’armadio. Mi riallaccio il maglioncino senza  farmi vedere. E cavolo, ogni tanto capita di capire male, via!

Per avvitare le cerniere si abbassa, dandomi le spalle. E io, donna sciagurata, mi incanto a fissargli quel ben di Dio di sedere, e già mi immagino (o porca miseria) cosa sarebbe vederlo senza quei jeans girando per casa. Assignur, stiamo calmi.

– Signora, ha una scala?

Ah si, sulla scala, siii, io mi arrampico e te mi blocchi i fianchi…. ehm. Arrossisco, miseria. Gli do’ sta scala, per un istante sono nel suo stesso metro quadro di pavimento. Diamine, sta salendo sulla mia scala, la mia scala!! Gli sto vicino e lui, perdinci, profuma di rosa selvatica e ibisco. Ahhh.. Lascia la scala e mi cinge, travolto dal desiderio, e i suoi bicipiti brillano sotto il sole mentre mi prende con la forza….

Macchè. Avvita le cerniere ai vari pezzi, sistema la corsia e le mensole. Non ha un filo, dico, un filo di pancia. E’ tutto muscoli.

E mica ha vent’anni, lo vedi che è un uomo fatto. E’ uno di quelli che ti dicono "hey bambina, adesso vieni qui che ti voglio"…e alla fine ti gettano lì in terra, e te adorante a sniffare la sua maglietta sudata…….ah….

Lo guardo fremente di desiderio. E mi accorgo….miseria, non sono le mie ante. E’ il segno del destino. Io le avevo ordinate in ciliegio, non in faggio. Deve ritornare. Tra dieci giorni.

Mi fa firmare una ricevuta, io protesto pure (che insomma, mica voglio che pensi che sono una ragazzetta su e via, CI HO il carattere io) e gli verso metà del pattuito, il resto alla consegna.

– …..non si preoccupi, tra dieci giorni torno io così siamo sicuri sia tutto a posto.

 

Ho dieci giorni per preparare una tattica. E rientrare nella 40.

 

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Oggi arriva l’armadio. E dentro ci metterò i miei vestiti. E le coperte.

Lo fisserò tutte le mattine, cercando un accostamento brillante. Ci riporrò il golfino nuovo, la gonnellina trendy, e probabilmente qualcosa di suo, che lascia da me ogni tanto.

Riempirà la mia enorme camera da letto, che sembra tanto vuota ora. Rifletterà i tramonti che si infiltrano dentro. E conterrà… conterrà i miei scheletri.

Oh yeah.

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Ho le mie cose, ma qui sembrano cose nuove, con questo nuovo sfondo.

Ho i mobili che mi piacciono, quelli che ho sempre sognato.

Ho uno spazio senza controlli, senza spioni, senza pericoli fuori della porta.

Ho preparato con cura, ho scelto le tende, le cornici dei quadri, le piante. Ho pensato ai colori predominanti per ogni stanza, ho messo logica in ogni cosa, e ordine, e perfezione.

Ho riempito intorno con le immagini, i ricordi, le comodità. C’è poco passato, e spazi vuoti da riempire col futuro.

Cazzo, mi sento ancora in albergo. Perchè, diamine. Perchè non c’è il calore di casa mia?

…mi manca il mio casino?…

 

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La svegliò nella notte. Si volse dalla sua parte del letto, e cominciò a toccarla come fosse un computer da accendere. Controllò che almeno la parte che gli serviva fosse "sveglia", e senza troppa passione le saltò sopra.

Nemmeno un bacio, lei pensava, diamine, dammi almeno un bacio.

Non era violento, era solo distante. Faceva l’amore con lei come lo si fa con un cucchiaino intinto in uno yogurt, mentre si guarda la tv. S’era svegliato, lei era lì ed ha approfittato dell’occasione. Così, con l’abitudinarietà che lega una coppia dopo anni.

Il buio della loro camera nascondeva i loro bisogni, così diversi e incompatibili. Lei cercava fantasie erotiche nella mente, il personaggio del film visto poco prima, il collega del terzo piano, o l’amica del liceo che si cambiava in bagno. Ci provava. Sopra, un uomo di mezza età, la sua pancia che le collassava sull’addome ad ogni spinta, i respiri affannosi che un tempo eran gemiti irresistibili. Nulla del ragazzo aitante che s’era portata a casa quella volta, attento alla sua pelle, alle sue carezze, a riempirla di baci. Voleva accarezzarlo, ma la rabbia di sentirsi usare, benchè a diritto, le bloccava le mani.

Certo, neppure lei era la stessa. Ma per lui s’era vestita e truccata con cura anche quel giorno, aveva preparato ogni cosa, riordinato la casa per le sue necessità, preparato la cena come sempre, con l’affetto e l’attenzione che si dedica a qualcuno di davvero importante.

Pure lui, come no. Non le faceva mancare nulla. Anche il superfluo. Cercava di renderla felice, con tutto ciò che era acquistabile, ogni comodità a cancellare gli anni di sacrifici subiti. Diceva che doveva "vivere" adesso, finalmente. Era amore, a modo suo.

Giunto alla fine, le crollo addosso, sospirando. Contento. Rimaneva immobile, attendendo che lui si girasse. Svicolò dal letto, chiudendosi nel bagno, e aprendo l’acqua del lavandino incrociò la sua immagine nello specchio. Impietoso, come tutte le volte in cui si ha l’anima sporca.

Non si disse una parola, non creò alcun pensiero. Silenzio in quel letto, silenzio nella sua mente. Che son discorsi che non si devono fare, son ragionamenti già fatti e già sotterrati.

La mattina, dopo averlo salutato, imboccando il solito incrocio, si sarebbe scoperta incantata a guardare fisso il nulla. Non mi servono soldi, non mi serve il resto…. mi serve un bacio. Un bacio che mi dica che mi ami. Ho bisogno di te, non di una nuova vita. Ho bisogno di riuscire ad innamorarmi. Penso, credo, vorrei, non lo so. Che lui l’ha salutata, e manco ha capito perchè era così fredda. E manco ha capito che era, fredda.

E il clacson dietro a ributtarla nella ruota del giorno.

 

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Ho la forte sensazione di aver fatto una cazzata galattica.

E sono angosciata.

Che è l’angoscia quella cosa che ti si ghiaccia il sangue in testa. E’ l’angoscia che ti chiude la luce nel cervello, ti guardi attorno e ti accorgi che Teseo non sei te, Teseo viene dopo, te sei prima, e il minotauro sta per scroccarsi gli ossicini del tuo collo tra delle cariatissime fauci.

Mi son legata a doppio filo, per comodità, o per la presunzione di saper controllare la situazione. E adesso non ne posso venir fuori. Non c’è una strada libera. E il Minotauro sta a leccarsi i baffi, con la sua boria, il suo egocentrismo e la rendita affettiva che gli procuro, probabilmente sul mio divano.

Sono una donna idiota. Ma proprio idiota. E mo’? Ma seguire l’istinto, e fuggire a gambe levate, io mai?

Ecco. Invece che passare il guado, ho scelto un traghetto. Che mi porta dall’altra parte, e mi vuol vendere pure un’enciclopedia sulla coniglicoltura.

Che se voi non mi capite, mi son capita da me. Per pietà, non toccate le molliche di pane dietro di me, io intanto vado.

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Ho mandato una mail elegante, distaccata, controllata.

Non uno sfogo, una denuncia, un’accusa, ma solo una comunicazione, una constatazione, una segnalazione senza commento.

Se avessi potuto, se avessi potuto dirglielo, a quei signori, che ne ho le balle piene di questa farsa. Di perdere giornate di lavoro, ore di lezione, e aumentare il grado di sofferenza del mio fegato, grazie all’evidenza di un padre che non gli frega un cazzo. Ma proprio un cazzo.

Sto li a dirmi, verrà, massì che verrà, l’hanno obbligato a venire. Non occorre che vada a scuola, ci va lui a prenderlo, e lo riporta all’ora convenuta, ma certo. Posso andare tranquilla.
Poi arriva l’ora d’uscita, e mollo tutto per ritrovarmi lì al cancello, in mezzo alle famiglie normali, che non si sa mai. E infatti lui non c’è. E taci che il fegato m’ha detto bene, e mio figlio non è mollato in mezzo alla strada.

Vorrei poterglielo scrivere, a quei signori. Piantiamola con sta farsa, e fateci vivere in pace. In pace.

E se vuole sparire, che sparisca. Che finalmente sparisca.