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Ancora la giacca addosso. Fisso il pavimento gettando ogni grammo del mio peso sulla sedia, immobile, spenta. Sono tornata già da dieci minuti, ma non riesco a scrollarmi da li.

Mi sento svuotata. Ho preso ogni energia e l’ho gettata in un concerto, ho corso per due settimane creando ritagli di tempo dove studiare. Ho pensato, fissato nella mente i particolari, inventato idee e soluzioni, tutto per un baraccone che ha dato, questo si, un ricordo e una lacrima a molti.

Ma ho corso, corso, corso. E arrivata li non ho pensato ad altro. Ho messo in ogni singola nota tutto quel che potevo, ho goduto per ogni frase, gongolato in quei brani che sembrano fatti per me. E avevo un suono, ah, un suono che entrava come un pugnale. Stavo bene. Li sopra stavo bene.

E gli applausi, belli, sinceri. E’ quello il mio mestiere, Dio se me lo sento addosso. Guardali, tutti pensano dalle mie note. Non si distraggono, rimangono sospesi tra le pause, si fanno prender per mano e portare per il pentagramma.

Ci sono due signori, in prima fila, di lato. Giusti li a sentire tutto. Li riconosco, sono i genitori di Mirko: si sono trasferiti qui da qualche anno. Mirko e io eravamo morosi, al Conservatorio. Era un genio, un musicista inarrivabile, ed è entrato in un’orchestra importante come prima parte. Vedo i suoi li, e mi sento un po’ in soggezione. Ma decido che lo dedico a loro questo concerto, loro che sanno, che conoscono, che capiscono.
Più in là il direttore della mia scuola, chissà perchè è venuto fin qui. E qualche collega, e qualche amico, e la "mia" Leti. C’è la chiesa piena.

E tanti non sono passati a salutarmi, dopo il concerto. Come se fossi diventata "importante", non so.

Fisso il pavimento, fisso gli istanti, assaporo gli ultimi particolari prima di scordarli, seppelliti dal prossimo concerto.

E adesso, mi chiedo, e adesso?

La mia routine, un testa o croce con la Stefi per vedere se lascio passare o lo mollo li, le lezioni, l’ufficio, e devo preparare la cena.

Il Gabry si siede sul mio sgabello da studio, e mi guarda. "A me non è piaciuta solo una cosa: che Mattia mi ha buttato via l’ultimo tappo". Il suo straordinario quotidiano, inarrivabile per me.

"Ma qualcosa almeno ti è piaciuta più di tutti?"

"..quando hai suonato quel pezzo da sola. Bello bello."

Anvedi, a mio figlio piace Debussy.

Okay, si riparte.

la festina del nano.

la festina del nano.

C’è una strepitosa influenza intestinale che sta decimando le scuole: vomito e diarrea come se piovesse (che bell’immagine, nevvero?) e vuoto nelle classi.

Quale miglior periodo per fare la festa di compleanno del nano?

Lunedì m’è divenuto ottenne, festa stabilita per il martedì pomeriggio, alla sala dell’istituto francescano qua di fianco. Ovviamente art director e total managment del party a carico di mammaflauta, che lo dico a fa’.

Mai fatto una festa di compleanno per un pupo?…leggete, leggete. Prendetevi avanti.

Innanzitutto, ci vuole il biglietto d’invito. Lo scarichi dal pc, lo stampi appena tutti sono usciti dall’ufficio e puoi sfruttare la stampante a colori del capo. Ritagli, e lasci il tutto al figliol prodigo, che distribuirà a belli e brutti, una settimana prima. Metti pure un numero di telefono, per confermare. Tanto non lo faranno mai.

La torta: o svezzi il pupo all’ombra delle minacce naziste, oppure qualsiasi immagine sceglierai per la torta, non gli andrà bene. Il mio, cresciuto con la prima ipotesi, ha amato Burt Simpson (gli somiglia, indubbio, gli somiglia). Per il resto, ai pupi della torta non gli frega un cazzo, quindi intonate gusto e colori alla maglietta, giusto per fare pandant sulle foto.

Alle feste bevono sempre e solo coca. Gingerino, fanta, chinotto, gazzosa…ma fatela finita: dieci litri di coca e una d’acqua (per smacchiarvi il maglione dalla panna lanciata a mo’ di catapulta).  E patatine.
Se prenderete i pasticcini, vorranno le pizzette. Se avrete le pizzette, vorranno i pasticcini. Ma le patatine sono un must. Fanno briciole. Tante, miliardi su miliardi. Che intonse di cocacola s’appiccicano al pavimento, alle scarpe, in una schifezzeria che solo la innata massaia che è in voi potrà sgrassare. Per questo, ricordate sempre, dovrete voi versargli sempre da bere. Che le bottiglie di coca cola son subdole.

I festoni. Un cordoncino con la scritta "auguri" costa 4 euro e trenta. Che lo dico a fare?, quello dell’anno scorso lo ritroverete sempre per quello successivo, ma una settimana dopo la festa di compleanno. Gli altri festoni, se vi va di lusso come a me, avranno un duplice uso: arredo colorato, e rete da pallavolo per palloncini ( e pizzette, patatine, moccolo secco, ..).

Ah si, i palloncini. I palloncini fanno arredo, e li si può far rimbalzare che non fanno molto danno…. e alla fine, si scoppiano. A piedi uniti, e giù, mitragliate di scoppi che i vostri timpani ricorderanno per giorni e giorni e giorni.

Ovviamente, dovrete passare il tempo a frenare gli istinti barbari dei ragazzini: fermo li, non salire la, non picchiare giovanni, non fate gare di rutti, ne’ di sputo, ne’ di vomito, grazie. Se non ci sono i genitori, potete picchiarli, in caso contrario create una zona franca, lontana da sguardi indiscreti, e date sempre la colpa ad un altro bambino (a cui darete 50 euro unatantum).

La festa, credeteci, prima un po’ finirà. Vostro figlio, sempre se cresciuto in stile Hitleriano, vi ringrazierà mille volte, dicendovi che siete la mamma più meraviglistigliosa della terra.

Mentirà. Ma mentirà benissimo.

quando dovete preoccuparvi.

quando dovete preoccuparvi.

Siete un blogger.

Avete iniziato a scrivere, che so, un annetto fa.

All’inizio avete fatto la gavetta: ctrlC ctrlV di testi di De André, commento di politica interna banalotto e assemblato dai commenti alla macchinetta del caffè, e foto del gatto.
Poi avete tentato la strada del personale: con lugubri metafore avete spiegato che la vostra ragazza vi ha piantato perchè avete troppi peli incarniti, mentre in realtà si era solo seccata di vedervi depilare le gambe prima di uscire coi colleghi per il brunch.

Avete incassato i primi insulti da commentatori anonimi.

Avete provato lo sguardo divertito del collega che "sa cosa scrivi nel blog". Avete chiuso il blog, lo avete reso privato, poi non vi cagava nessuno e l’avete riaperto.

Avete iniziato a commentare in giro: Grillo, Swan, Sviluppina, Martellini. Vi ha risposto solo pannasmontata (perchè gli avete cancellato i credits del template, bastardi). E Spad, ma vi confondeva con una gnokka (straviato dalla depilazione delle vostre gambe).

Poi vi siete pure riempiti di bottoni, avete imparato cos’è il feed e i tag e le classifiche, e come incrementare posticini.

Siete ormai un blogger vero?…. vi chiederete. Eh no.

 

C’è la prova del nove.

Leggete un blog. Un blog nuovo, di quelli magari collegati ad un commento sagace di un altro blog.

Fatto?

Rispondete ora: vi è piaciuto? Avete detto "ora lo linko, lo metto tra i preferiti e lo leggo più spesso…ma che bravo…che bene che scrive…che modo garbato, che ironia…che stile…."..?

Ah no vero? Avete pensato solo ad analizzare come cazzo fa questo/a a scrivere così bene, con argomenti così brillanti, con settantacinque commentatori in mezzora, e bla bla…. Vuoi che anche io non sia capace? Ah beh, adesso che lo so… vediamo…proviamo a scrivere così… e colì… e colà…. ah, okay.

Allora siete un vero blogger.

Bravi.

Del perchè ci si da del lei.

Del perchè ci si da del lei.

Il Cinas si spazienta se uso cotal modo di interloquire con lui…. indi poscia, tento una spiegazione da due euro, da devolvere in (mia) beneficienza (magari compro un template serio, finalmente) e placare i dubbi che, lo so, vi attanagliano da giorni E giorni E giorni.

Il lei, tra blogger, fa sentir fighi.
Ci si relaziona come fossimo vecchi docenti universitari, storici della digitata-parola, magnati dello stoicismo della pagina web del corriere. Lei mio caro caporale, ad esempio, è spettacolare. In risposta un signora flauta è da ora del thé coi biscottini. Ne convengo messere, è pura cavalleria medievale, è un mirabile esempio di ricerca dell’aulico, tra le emimie* cazzate di commenti che lasciamo a casa l’uno dell’altro.

E che io commento poco.

Ma è bello pensare che siamo tutti personaggi seri che si prendono sul serio, seriamente. Di quelli che non ci fanno, ci sono proprio. Convinti che davvero il blogger e discussioni derivanti possano davvero cambiare qualcosa.

E le ribadisco, le do del lei per indicarle il "noi". Esimi caciaroni, certo, ma con una graziosissima camiciola di seta con lo sbuffo, digitando col mignolino in su banalismi ed ovvietà detti con tanto garbo.

E’ questa, la sublimazione del fancazzismo. Mica ciufoli.

 

 

*ignoro se esista, ma ci sta benissimo.

Ce la posso fare.

Ce la posso fare.

E’ da marzo che ho un post-it sul frigo, con il numero della organista. Da marzo devo chiamarla per un concerto, dopo 12 anni che non suonavamo insieme. Ma ammettiamolo, su Vivaldi non puoi svisare… mi tocca studiare. Scale arpeggi note lunghe. Mica panzane.

Un mese fa, lampo in mezzo al buio del mio cervello bacato, decido di chiamarla, fissare il concerto, affrontare e rianimare il mio passato da flauta seria, classica, concertistica. Che a parte sprazzi qua e là, il concertone serio lo salto allegramente da anni, più propensa al giess, all’ipòp, al moderno, all’arte (volendo, anche più difficile) dell’improvvisazione. Si studia si, ma in modo differente, meno pragmatico.

Ma il mio papà ci tiene. Il mio papà che non è venuto al mio diploma di jazz, che non mi ha nemmeno mai sentita cantare, perchè nel suo immaginario io posso suonare, proprio al limite, un Morricone. Niente di più "leggero". Purtroppo, il resto per lui (e per la soprano-contessa madre) son tutte "canzonette".

Le mie note lunghe hanno lo stesso utilizzo del rumore di un ottimo aspirapolvere. Gli arpeggi partono bene, ma salgono a strozzo di gallina. Le scale sono state vietate dal Protocollo contro la pena di morte per la cudeltà inaudita. Suonare Bach senza renderlo swingante è un successone. Dare senso logico a Handel, già più difficile. Non parliamo dei trilli, che invece che misurati e settecenteschi, sembrano un assolo di eminem. 

Il confronto tra il curriculum dell’organista e il mio, sembra tra il menù dell’Hilton e quello di Mac Donald. Lei è un soufflé delicato aromatizzato alle spezie berbere, con guazzetto di champignon alla Regina di Prussia. Io invece, un Happy Meal.

Il programma? Ovviamente estroso. Con alcuni pezzi che ignoro. Poi io, molto figa, le ho detto "massì…fai tu". E poi, da vere profescionàl, niente prove, ci vediamo il giorno prima dai, così "ti do’ le parti". Parti che studierò (forse) la sera prima del concerto.

La notte immagino chilometri e chilometri di biscrome e semibiscrome che mi si attorcigliano al collo come un’anaconda.

Ce la posso fare.

Forse. 

è arrivato il momento di un buon fondotinta.

è arrivato il momento di un buon fondotinta.

Calcolando che condivido età e compleanno con Caparezza, non posso lamentarmi se stamane i miei capelli eran simili a rafia colorata da decorazione bomboniere. Ho bisogno di  un parrucchiere. Ma uno bravo.

Ho la faccia verdognola. Quell’incarnato post-abbronzatura, presente?, a chiazze. Mannaggia a me che non son nata in agosto, vedrei meno il trapasso da un anno all’altro. Ora invece, in quel momento triste in cui la cipria estiva è troppo scura, e quella invernale è troppo chiara, ci sarebbe bisogno di..che ne so…. una lampada. Un incarnato marrone.
Inoltre, un’incipiente disidratazione disintegra lo strato cutaneo, che appare formato da tasselli piccolissimi di puzzle, incastrati malissimo, uno spot del deserto del Sahara, tutto formato da dune sabbiose (la cipria che si deposita) e laghi verdi spenti (borse sotto occhi, zigomi, e quant’altro. Ho bisogno di un chirurgo plastico. Ma uno bravo.

Sveglio il nano, che si lancia dal letto a soppalco senza paracadute, sfracellandosi nella mamma chioccia quale sono, che con disumano sforzo lo prende al volo, in equilibrio precario sui giocattoli sparsi sul pavimento (che al buio non vedi, ma senti) che manco camminar sul silicio, dico. La schiena emette scricchiolii preoccupanti, mentre il minutaggio dell’abbraccio a mezz’aria del buongiorno, pian piano diminuisce mattina dopo mattina. 

Affrontando il semaforo di Favaro, quello stracavolo di semaforo di Favaro che alla mattina sembra sia il mercato del pesce con gli sgombri in offerta, mi accorgo che i riflessi calano, il sincronismo tra accelleratore e frizione diventa imbarazzantemente impreciso. Mi muore la macchina. Mi accorgo che quelli dietro non mi suonano, non più perchè mi giustificano in quanto bionda, ma in quanto anziana signora che porta i figli a scuola. Ho bisogno di un amante giovane che rialzi i valori della mia autostima. Ma uno bravo.

Quest’anno in ufficio non l’ho detto a nessuno. Ho la felpa di Andrea, con scritto àssame star, a chiaro monito del pericolo imminente se vengo contraddetta, in cotal giornata funerea. Voglio evitare festicciole, bacetti sulle guance e battutine sull’età che avanza, quando domani ricominceremo ad ignorarci nei corridoi. Per non parlare dei regalini, fatti indistintamente a chiunque mettendo tre euro per scrivania, obolo indistintamente per i belli e i brutti. Che o tutti o nessuno. Ah no. Che son acida oggi, son acida.

Arriva un fiorista, con un elegante mazzo di fiori. Dono a sorpresa dei due ricchissimi-et-petulanti imprenditori della magnificente-et-rognosa opera edilizia della cittadina caotica, peraltro non ancora terminata (un pegno, ne convengo) che ha contribuito a numerose mie notti insonni (e sovrassediamo sulle giornate). Punto una calibro 12 al costato del fiorista, sequetrandolo nel mio ufficio, e minacciandolo di ripercussioni pollinarie se avesse fatto circolare notizia. Incredibilmente, nonostante abbia praticamente bussato ad ogni porta prima di arrivare al mio ufficio (ultimo del corridoio del braccio della morte..), il segreto è ancora al sicuro.

Certo, a qualcuno l’ho detto. Al beissimo collega della macchinetta del caffè, che due baci ho solo tre occasioni l’anno per averli. E al collega Mario, complice di scrivania, convitato al brindisi a due del pranzo di domani.

Ebbene si. trentaquattro. Che ci devo pensare, che non mi viene mica. Anzi, ho deciso, facciamo conto tondo: 35, così per due anni non ci penso più.

Quindi ormai i trenta son passati…. cazzo, ho quarantanni!!… Mi chiudo in convento. Anzi no, vado in un harem. E insegno i segreti della brava geisha alle preferite del sultano. Insomma, faccio la magnaccia. E mi chiudo in me stessa, a riccio, così nessuno potrà infierire sulla mia bellezza sfiorente. E solo da uno mi farò vedere.

Ma uno bravo.

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In fabbrica e negli uffici si discute: mamma sindacato ha deciso che i cavoletti di bruxelles sono buoni, e ha deciso di concederci di votare a favore o contro. Anche se, a prescindere, ce li cucchiamo a cena, scommetti?

Comunque, è sintomatico scoprire che, come me, in molti guardano ballarò. O meglio, Crozza. Dopo, parte il zapping.

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Ecco, ho cambiato template.

Son mesi e mesi e mesi che imploro quel sant’uomo del mio amico, ma niente. Mo’ ho intanto dato una ripulita e ho girato i mobili. E mannaggia a me che ho sempre morosi impediti col pc, impossibili da sfruttare.

Ovvio che adesso non troverò più niente. Abbiate pazienza. Ma siatemi vicini. E possibilmente, date consigli. Si prevedono ultieriori colpi di matto, qui dentro. Che si stan passando i 33 e come dire, ci si crocifigge ancora fin domattina.

Vi dirò, vi dirò.

 

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Entrò in silenzio in una casa di cristallo. Tutto trasparente, tutto invisibile.

A tratti il riflesso dei suoi pensieri intorno, la turbava. Inciampava, sui ricordi.

Si sedette su di una sedia, davanti ad un vecchio televisore a valvole. Come quello in cui da bambina guardava i primi cartoni in bianco e nero. Azionò la manopola, primo canale, secondo, le immagini della sua vita miste al ronzio del fuori frequenza, senza riuscire a metter bene a fuoco.

Avanti, indietro, troppi programmi, troppi canali, troppi ricordi, ancora inciampava, ancora ci sguazzava dentro.

E allora spegne. No, non spegne. Sta lì, col dito a mezz’aria, aspettando di premere l’off. Aspettando di aver sufficienti palle per premere l’off. Aspettando di non aver più una briciola di rimpianti dopo.

Aspettava ferma, un centimetro avanti, un centimetro indietro, indecisa, sospesa in un limbo di paura e pigrizia.

Si spense la luce,  e lì da apparire un paio di secchi di pittura bianca, una salopette demodé e una parete da inventare. Una pennellessa nuova, senza vecchi colori rimasti dagli anni prima, e destra, sinistra, il gesto sicuro e placido del rimettere a nuovo la propria casa, quella che aveva addosso. Qualche ora di lavoro, un istante ad asciugarsi il volto dal sudore misto a tempera, e gli ultimi ritocchi. Appoggiò in terra secchio e pennelli, osservando con dovizia il compiuto.

D’improvviso l’abbraccio di un bimbo che corre in un prato, e il sorriso dell’uomo che amava, a travolgerle i pensieri, a portarla a giocare ad un gioco nuovo. Per mano, a piedi nudi sull’erba, tutto daccapo.