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Io e Corto.

Io e Corto.

Potrebbe sembrare. Ebbene, potrebbe.

Ma io e Corto non è una metafora del mio matrimonio (in cui il Corto è…presto riconducibile..).

Forse però, matrimonio è. Ci conosciamo da alcuni anni, sarà la moda, sarà l’età, sarà il grado di maciullaggine in cui imperversano (e pervertiscono) le mie corde vocali. Io e Cortisone stiamo insieme. Lo lascio, lo riprendo; lo maledico perchè mi gonfia, manco fossero gravidanze indesiderate, eppure alla fine quest’amante indegno di stima ritorna ciclicamente (nel senso di blister di pastiglie) nel mio quotidiano.

Stamane, svegliata all’alba dal corto per antonomasia (l’ex marito), ho contato una per una le ossa che non facevano sit-in dolorante sul letto, cercando di individuare lo stato di permanenza in posizione eretta che mi sarei potuta permettere durante la giornata. Scivolando per il corrimano di casa, transitando da auto a scrivania con la fedele poltrocina a rotelle, dovrei riuscire a portare a termine l’avventura.

Alle 12, vado dal mio nuovissimo medico, giovane, alto, occhio profondo, spallacce da rugbista con camiciola d’ordinanza alla American Gigolò. E abbronzatura che, diciamolo, rende bello pure Banfi. Dopo un’occhiata all’ugola flautesca, decreta che sono abbastanza giovane e sufficientemente gnokka per disporre un’auscultazione del torace. E mi par giusto.
Camiciola bianca da educanda, di due taglie più piccola pur di far tirar i bottoni (e petto in fuori, a curvare le costole se necessario), mi chiede di respirare. Ah gioia, ma preliminari niente?

Vi risparmio le ciance: il very professional dopo dieci minuti di colpi di tosse e cincionamenti con lo stetoscopio, mi sorride, che le cantanti ogni tanto il cortisone lo devono prendere.

Mi chiedo se ho sbagliato negozio, magari son dal panettiere. Boh, forse non conosco abbastanza cantanti. Tant’è che mi rifila un altro tot di Corto, in aerosol almeno, e un pacco di antinfiammatori e quantaltro. Insomma, far la cantante è una chiavica. Ma inciuciare il dottorino vale la fatica.

 

Andiamo per ordine

Andiamo per ordine

Si parte un venerdì pomeriggio, stipata tra tastiere e chitarre nel carrozzone, sbarcando in quel tempio di jazz dove vorrei fare jazz mentre invece faccio finta. Come una scimmietta in gabbia di un ruolo che le hanno appiccicato addosso. E pensare e ripensare che si è fatta la cazzata. E vedere dopo la mezzanotte le note di chi avrà metà dei miei anni, star lì sul palco mentre io sono già in "post-concerto", con un mojto acquoso in mano, e una sottile vergogna addosso. Che vorrei salire lì, io. A gratis. Senza lustrini. Senza presentazione. Senza microfono.

Un’ora di sonno, poi un carico di mp3 sull’Ipod, e sette ore di viaggio per raggiungere l’unica cosa che nella mia vita conta.

Un viaggio scomodo, un treno stipato di gente indifferente, io rinchiusa nel mio mondo di note, occhiali scuri e pensieri cupi, con tanta voglia di prendermi a schiaffi. Quando poi le cose possono migliorare, ovviamente peggiorano.

I commenti galanti e quelli quasi spinti degli avventori del mio tragitto, un fiorentino che mi ci porta lui a Piombino in braccio , un napoletano della moby che mi porterebbe anche altrove, e qui e là le scemenze ad una fanciulla che viaggia sola, il caldo, il sole, o forse la faccina da cane bastonato che mi ritrovo.

L’arrivo in porto, il mare. Dieci anni fa, sul battello, rimanevo abbracciata al fresco marito. Partimmo col bancomat bloccato, anche se lo venni a sapere solo nell’isola. Per tre giorni tonno e pane, comprati con le monetine sparse nella macchina. Dovevo odiarlo, ma ero sazia di quell’amore cieco, ingestibile, da prosciutto sugli occhi. Ero felice, ero comunque felice. E ora ho qui un groppo allo stomaco, forse ricordo della fame di diec’anni fa, forse per la rabbia che non mi andrà mai via.

Il mio cucciolo mi salta al collo, lui è partito ieri con gli amici e la morosetta (la sua). Mi siedo alla tavola della cucina, con il profumo della mozzarella e del basilico, il sorriso di Eleo e la pace che mi da stare a parlarle. Mi sento al sicuro. Io ho bisogno di sentirmi al sicuro, ora, metter giù le armi e dimenticare la mia vita.
Giocare coi due bimbi, organizzare il pranzo e la cena, scegliere il costume e la spiaggia, e spegnere, spegnere, spegnere il telefono.

Gabry un giorno va anche in crisi, dice " mamma….ho invidia!". La rabbia di vedere la sua amichetta, con la mamma e il papà insieme. Che lui non ce l’ha un papà, "e mi piacerebbe averlo", e io a bluffare con pro e contro di situazioni e complicazioni. Anche a me piacerebbe, ma non ci sono fatta, per far la moglie. 

Due notti dopo, 39 di febbre. Quattro notti dopo, guardia medica, antibiotici, cortisone, oltre al resto che già prendevo per la forte anemia che mi hanno riscontrato prima di partire. Cinque giorni su sette, a letto. Un incubo.
La tosse che uccide, la gola in fiamme, una laringite da Guinnes. E una testolina bionda che si sente in colpa, e senza la mamma non vuole andare in spiaggia. Povera mamma. Povera mamma.

Gli ultimi due giorni, me ne frego di tutto, sto male ma voglio stare con te,  maschera e snorkel, ti prendo per la manina e andiamo a nuotare in fondo, vicino agli scogli, che ci sono pesci che non hai mai visto. E sono enormi, ce ne sono mille, e anche se non tocchi c’è la mamma che nuota in fianco. Poi facciamo un castello con la sabbia, con attorno tutti i bambini della spiaggia, e tu che ti vanti che mamma fa la capanna intrecciando le alghe, e il mulino, e alla fine la pista d’atterraggio per gli elicotteri. Che la mamma è matta, e ti piace così. Piena di sabbia fin le orecchie per giocare con te. Piena di febbre, di tosse, di mal di testa, ma chissenefrega.

Torno a casa distrutta, sotto chili di medicinali (e l’odiato cortisone) senza sapere ancora cosa ne sarà della maledizione della mia gola. Sto pure in ufficio, che star male a casa non serve, magari recupero qualche ora per portarti ancora al mare.

Certo, che belle ferie. Come non fossi capace di star serena una settimana, in questo mio trancio di vita. Rimane forte però l’immagine di quei due bimbi, che litigano a morte, e dimenticano tutto dopo un istante. Che giocano, e che da soli non si sarebbero divertiti tanto.  La vacanza di Gabry, così com’era giusto che sia.

E ora, avanti. Curiamoci, che tra un anno torno in ….ferie..

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Nella valigia pochi vestiti, lavabili. Costumi, asciugamani, maschera e snorkel, doposole. Libri, Mp3 carico, e telefono spento (per quanto possibile).

Stasera l’ultimo concerto (Piazza degli scacchi a Marostica, alle dieci, se siete in zona..) e poi chiudo col mondo per un po’. Con me gli amici, e la morosetta di Gabry (il settenne si porta la birra da casa andando all’October Fest… mah).

Ferie a bocconi piccoli quest’anno, ma succulenti. Li morderò con tutta l’isteria di un anno di lavoro, di uno stress pantagruelico da smaltire bracciata dopo bracciata nel mare dell’Elba.

Fate i bravi. Ma anche no.

flashback

flashback

Stamane, ore 7.54, mi ferma vicinadicasadeimiei-madredicaraamicad’infanzia. La caraamicad’infanzia è mamma da tipo una settimana, a settembre si sposa.

Che ti sposi a fare, solo perchè hai un bimbo? Suvvia.

Mi ha chiesto se vado a suonarle al matrimonio. Che le amiche flautiste servono a tre cose: suonare al matrimonio, fare da maestra di musica ai figli, raccontare succulenti aneddoti da single spudorata.

Indi dovrò vederla abbandonare lo status, maritarsi per un trancio di vita (che l’amore eterno, suvvia, è da cartoni animati) e farle commuovere il parentado con l’ennesima ave maria di gounod, all’occorrenza pure un Mission di Morricone.

E tirarle il riso alla fine. E fare commenti su com’è bella in bianco. E guardarla pensando che diec’anni fa ne avevamo combinate delle belle. E vederla fare la mogliettina per qualche anno.

Poi ingrasserà, non si truccherà più, il marito farà tardi la sera, e lei dietro ai figli (che poi arriva il secondo). Poi una notte la incrocerò in discoteca, permanente e trucco pesante, arrampicata ad uno che somiglia poco al marito. E mi dirò "aah, okay, tutto normale".

– Certo che accetto, ci mancherebbe che non vada a suonare per un’amica nel giorno più felice della sua vita…..eheh…..

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Certo, non suono per la gloria.

Se mi devo fare un mazzo tanto per studiarmi testi, strutture, stacchi e quant’altro, lo faccio e zitta. Che mi ritengo una professionista, una musicista seria, che si prende un impegno. Forse stavolta l’impegno è ben maggiore, forse cantare ad un festival jazz vale sempre la pena.

Ma cazzo, per una volta, vorrei la mia, di foto. Il mio, di nome. E non sempre quello di altri, quelli che fanno figura morta, mentre io mi smazzo per tutti. Chissà come mai, sul palco i riflettori su di me, quando serve, ma la pubblicità per altri. Manco fossi una novellina.

Sono tornata sulla strada vecchia, invece che proseguire per la nuova. Riprendere a lavorare con Mister Ego, che scemenza colossale ho fatto.

Si, sono una sciocca orgogliosa.

E lo so, tu me l’hai detto. Tu che non capisci un cazzo di musica. Ma anche no.

 

 

 

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Ho un problema con le scarpe. Ho un problema con la mia femminilità.

Che è noto, le donne hanno una passione sfegatata per le scarpe, per gli accessori, per i trucchi, per il guardaroba in genere. Nel nordest che macina, c’è poi il virus del pandant, e un inquietante uso smodato dell’accostamento scarpa-bracciale-orecchino-maglietta-borsa-mutanda. Si, mutanda in tinta, maipiùsenza in quest’era della vita bassa.

Ecco, se ne deriva che io non sarei donna. A Me Non Mi Frega una sacrosanta cippa del pandant.
Quando poi i trenta fan lievitare come il pane del mulino, e la routine da madre di famiglia di fanno saltare numerose happy hour e occasioni mondane, te ne infischi abbastanza della foglia di fico da metterti la mattina.

(attualmente, giornata lavorativa, canotta a costine viola con pantalone nero largo con sbuffo alla fine, da vero rapper,  scarpa da tennis, e all’abbisogna mossa alla JLo molto Piis en Love)

Venerdì pomeriggio, centro commerciale di fiducia, negozio di fiducia, scelgo la mise per il concerto della settimana successiva. Che il nero non va bene, il nero è solo della band, la cantante si veste diversa, per distinguersi (da quelli che sono musicisti veri, nrd). Il colore scelto è, in barba a millenni di sfighe, il viola.
Un bel viola con accenni di oro, un bel vedere proprio.

Il problema è stato…la scarpa.
I miei storici taccacci neri, dopo anni di onorato servizio, han deciso di far male, ma male, ma di quel male che cammineresti scalza. Ti prende il mal di testa, stringono la caviglia e ti si gonfia il polpaccio, la coscia, il ventre e infine pure le tette. No, alle tette non c’arriva mai, cazzo.
Indi via, dopo mesti funerali e medaglia al valore, con violino tzigano in sottofondo e discorso di commiato dell’amministrazione comunale nella persona del signor sindaco, le ho messe al prato.
Come i cavalli a fine agonismo.

La ricerca del degno sostituto, col fedele settenne rocker dietro, è iniziata nel più gigantesco dei negozi di calzature che il mondo abbia conosciuto. Le ho provate tutte. O non c’è il numero, o c’è ma è stretto (e il successivo manca) o c’è ma è largo (e il precedente manca), o c’è e va bene ma è del colore sbagliato. Zeppa alta, zeppa bassa, infradito (odio l’infradito), sandaletto, tacco a spillo, stivaletto, niente, niente, niente.

Sono uscita con un paio di scarpe da ginnastica, bianche.

A casa non mi andavano più. Provate senza calzini (che pure io mangio pane e volpe la mattina).

Lunedì sera, nonostante il Ponte della Libertà bloccato da un carico di lavatrici sull’asfalto (giuro, non è una metafora), mi imbatto nel traffico di nuovo, e torno. Cambio le scarpe. Si, c’è il numero giusto. Si, è il giorno giusto, ci voglio provare.

La commessa mi da fiducia, ce la farai flauta, si, i pianeti sono nella congiunzione astrale, e il moroso dice "non devi capirmi, devi amarmi". Che son certezze importanti (?), in questo momento difficile.

Alla fine… eccole. Sandaletti altizzimi, color oro. Tacco stretto ma non troppo, cingono caviglia et tatuaggio annesso, con classe e disinvoltura. Riesco a ballicchiare abbastanza equilibratamente, dando l’idea più di ragazza cubo che di flautista con problemi vestibolari, insomma, è la morte sua.  

Le prendo. La visa passa sulla macchinetta, e il suo microchip mi guarda commosso. Ce l’ho fatta. Applausi delle commesse. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per la forza di gravità.

Ho tre paia di scarpe ora. Mi sento già donna, una vera donna, oh yeah.

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Il nano, nella fattispecie il flautino, sta con me in ufficio oggi.

Sta seduto sulla scrivania di fronte a me, a disegnare, buono buono. E fischietta.

Il che sarebbe normale. Se non fosse che fischietta Smoke on the water.

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C’è quello spazio fra alti alberi d’un prato, con un’acustica sublime, che io chiamo il posto delle streghe. Suono, e sembra che ci sia pubblico qui, anime sequestrate nella corteccia, fate dispettose nascoste nei cespugli, vite passate e istanti mancati, tutti intorno a me. Provo a sedurli, col Syrinx di Debussy così tremendamente gothic, qui. Ma poi, incespando in quei ultimi passaggi, che come sempre dimentico, me ne vado arrampicando note che un vento caldo di mare mi suggerisce.

Mi chiamano, si inizia. Un borgo di campagna, a due chilometri dal mare, un perimetro di case comunicanti, famiglie allargate e geranei ai balconi, e lì il nostro palco. Anziani con la sedia pieghevole sul terrazzo, politici in gessato impeccabile a fianco al signore del piano terra, col pantalone corto e le ciabatte. Dopo il concerto ci invitano tutti in cantina, e portatevi un maglioncino che li fa freddo, e la mia famiglia musicale preferita attorno, tutti un po’ ubriachi, a discutere di cose serissime, che il giorno dopo avremo dimenticato.

E quando bevi la macchina è di burro, segui la mezzeria con apprensione e passi attraverso le solite strade senza riconoscerle. Passo anche davanti a lì, dove ti ho amato la prima volta.

Forse anche questa mia nuova vita, in fondo, è sempre la stessa, solo che sono un po’ ubriaca e non la riconosco. E ti amerò, ancora una volta.

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Si. Sono io il re del mondo.

Basta saltare sulla sedia gridando "giomp!….ai sei giomp ai sei ouououo..ai sei giomp" e sei subito in sella al pianeta. Che tanto i van halen sono sicuramente scandinavi e la pronuncia non la so. Basta fare un trenino con le poltrone girevoli dell’ufficio, e chiamarle per nome, tutti in un girotondo di amore e amicizia e felicità e cetera. Che non muovo il collo manco fosse incementato sulle spalle a far blocco unico (sarà che m’è sceso il tartaro sulla carotide, vallo a sapé),  tutto per aver dormito ieri pomeriggio con ivano* con testa obliquamente disposta sul poggiabraccia, membra rovesciate a pancia sotto e braccino che penzola triste sul terreno, con primo passaggio indolenzimento, poi colorito blu, poi cancrena. Boccuccia aperta e zeta sibilante che esce, modello baloon, dalla testa bionda arruffata, che non si capisce ndo sta la faccia, manco fossi la barbie contorsionista. Una bella immaginetta per demolire l’immagine sexy dei miei lettori.

(*ivano, il divano)

Eh si. Avevo tutte le mie energie rock (che io sono rock, minkia se sono rock, vacca boia se sono rock!) e il chiodo del liceo, tolta la polvere e qualche tarma, ancora in tinta con la minigonna dell’epoca, con pericolosi automatici che la chiudono, indi respirare con cautela che non c’ho più vent’anni. Ero capace di fumarmi un pacchetto di Malboro cattive anche, bere birra (la weisse del lidl, che la ainechen non è mica rock!) e provare a vincere il torneo di rutto modulato con un’interpretazione delle quattro stagioni ( senza peperoni).

E invece niente. Mi son rassegnata sul divano, ebbra di film altamente positivi come "shakespeare in love", e relativo pianto di commozione. Ma diciamolo, mi son commossa anche durante il documentario su Tortora, col refrain della rubrica di Portobello "dove sei". Minkia, il dove sei.

Ho detto, reagisco. Alzo le sedie della cucina, e giù di mocio. In sottofondo, esecuzione commuovente a cappella di Roxanne, con tono semiubriaco all’abbisogna. Al quindi Roooocccseeeen la mia gatta inizia a lanciarmi a sputo, uno ad uno, i sassolini della sua lettiera. Desisto.

Prendo la bici, con un sole maiale, che io e Cacciari e il De Luca ci mangiam le mani pensando che si poteva stare a far la hola per Vasco, a sta ora. Il nano sborone mi passa sfrecciando, improvvisiamo una sfida stile peppone-doncamillo. Non ci sono chiari i ruoli.

D’improvviso mi scuote la coscienza questo mio non sapere più quale che sia la mia fede politica. Dopo un paio di secondi di smarrimento, mi ricordo che c’è sempre Pannella, che non si sa mai dove cazzo stia, ma c’ha sempre ragione anche se non lo vota mai nessuno. Oh yeah.

In parco il nano trova un altro nano, fanno combutta e mi coinvolgono nell’innovativo gioco del chi ce l’ha. Ribadisco che io ce l’ho, e pure d’oro, ma i bimbi non capiscono. O meglio, mio figlio capisce, e mi batte sulla spalla come un’infermiere del reparto psichiatrico. La madre del nano acquisito attacca bottone, partendo dal che ore saranno, per poi parlarmi della sua crisi matrimoniale. C’ho scritto "parlami dei cazzi tuoi" in fronte? Forse si. Il marito non la bada, non la ascolta mai, ha altri hobbies e non pensa altro che a quelli, non sta mai con lei e i figli e passa più tempo in ufficio e in palestra che altro.

Le dico "su, vedrai che passa, è la crisi dei 45". In realtà dovrei dirle "su, vedrai, s’è fatto solo l’amante".

Torno a casa cantando Help dei Bitols, a tre voci, cercando di sfidare la velocità del suono per farle combaciare, e modestamente ci riesco. Mio figlio mi guarda compatendomi. Che c’ho l’anima rock, e voi non mi capite.