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Categoria: sentimental mood

quelli che come lei

quelli che come lei

Si rimbocca le coperte, vedendo la luce dell’abatjour illuminare discreta la stanza.
Il leggio, accogliendo i suoi fogli, sta’ lì in attesa, in Pause. E lei lo guarda, e se lo chiede, quanto spazio sta dando alle cose che meritano, in questa sua vita. Perchè nemmeno oggi c’è riuscita, a togliere il Pause, anche se ci ha pensato, ci ha ragionato, su quel bel libro che le ha regalato Max, che lontano chilometri condivideva forse le stesse ansie da insoddisfatto perenne. L’insoddisfazione che è la spinta a studiare, ricercare, smontare e rimontare mille volte.
Ma la stanchezza. La stanchezza della noia obbligata, quella che non sai come toglierti di dosso. Che ti costringe a vivere quella vita che non è la tua.

E così si ferma a pensare, a quanti come lei stasera guardano un leggio, o un copione, o il cavalletto coi pennelli, o le scarpette da ballo. A quanti come lei debbono perder tempo in facezie come dover mangiare e pagarsi una casa. A quanti non hanno nemmeno forza e voglia di lamentarsi, di prendersela col governo, o di discutere di come vada in rovina il mondo. A quanti ogni mattina si alzano, spengono la radio, e guardandosi allo specchio si confondono. Entrano nel medesimo ufficio, la medesima scrivania, un caffè dalla macchinetta e la banalità dei discorsi tra sconosciuti con cui, per ore, si passa ogni giornata.

E pensa che non è così sola, in quel lungo respiro che le parte dallo stomaco, piegato da un dolore reale, e la testa che fa male, e gli occhi che bruciano, senza motivo apparente. Sapendo che ogni giorno passato, non si è costruito nulla. Nulla.

Chiude gli occhi, e pensa al giorno della settimana, che tanto è uguale, lunedì, martedì, è tutto uguale. Si torna sempre al punto di partenza.

La luce si spegne, e la postazione della sua arte si addormenta, lo sgabello, il leggio grande ad abbracciare le sue note, il metronomo appeso come se dovesse servire tra poco, e una matita appuntita, lì, che attende con affetto di tradurre le idee in musica.

Forse è giunta l’ora di pensare di farla, la pazzia.

Sotto quella pioggia

Sotto quella pioggia

La gonna al ginocchio, un po’ più pesante, perchè oggi fa più freddo. L’ombrellino pieghevole, ancora gocciolante, in fianco alle scarpe. E lui alla guida, perchè oggi piove, e c’è lo sciopero dei bus, e allora dai t’accompagno.
Un semaforo annoiato, in mezzo al marasma di vite quotidiane, rinchiuse in scatole su ruote, e le cortesie e le bastardate del “farti passare”, in una coda infinita di gente tutta uguale. La rado gracchia, sempre solo noiosa pubblicità, e subito dopo le notizie, che in questo quarto d’ora la musica abbandona ogni frequenza.

Non parla, lui, non parla, lei.
Stanno nel silenzio dei loro giorni, dei loro discorsi che non serve discutere.
Se lo chiede, com’è che sono arrivati a smettere di parlare. O bene, non di parlare, che parlare parlano. Ma di chiacchierare.
Il loro primo viaggio, clandestino, era colmo di chiacchiere e risa, prese in giro e filosofie spicce.
E lui che la prendeva in giro, perchè arrossiva sempre, e lei che faceva finta di far l’offesa. E tornavano a casa, dalle loro famiglie sbagliate, lottando per uscirne. Quando poi erano entrati nella loro casa, il primo luogo dove potersi amare alla luce del sole, e due cognomi assieme sul campanello, tutto poteva dirsi un sogno realizzato. Nulla poteva andar storto, di tutto ciò che avevano così tremendamente desiderato.

Non se lo ricordava, com’è che avevano iniziato a preparar la tavola lasciando la tv parlar per loro, in un insieme di gesti consecutivi, catena di montaggio della loro vita familiare. Non se lo ricordava, com’è che aveva smesso di chiamarlo in ufficio, di scambiarsi mail d’amore e messaggi di zucchero. Non se lo ricordava, quando aveva smesso di dormire tra le sue braccia, ora ch’era così abituata a voltarsi dall’altro lato.

Il tergicristallo scivolava stanco sul vetro, con una pioggia stanca a dargli scacco. Non c’erano stati litigi, si erano spenti gli ardori, boh. Gli voleva bene, mai avrebbe pensato di vivere senza di lui. Aveva quel modo di capirla anche senza che lei avesse proverito parola, sapeva passarle il formaggio senza che lo chiedesse, sistemare il rubinetto senza farsi pregare, chiuderle la lampo del vestito senza averlo chiesto. Ma forse, forse si era spento. Lei era ingrassata, certo, e quella vecchia gonna di lanacotta le stava malissimo. Se la coprì piano, con l’impermeabile, vergognandosi un po’.

Accostò l’auto, vicino all’ufficio, in modo da non farla bagnare troppo. Lei prese di corsa le sue cose, aprì la porta e l’ombrello, evitando la pozzanghera. Ciao, perchè ciao basta.

– Anna.
Le prese la mano, prima di lasciarla scivolare nella sua giornata. E la guardò negli occhi.

– Anna. Volevo dirti… Hai sempre due gambe stupende.

Inebetita, lasciò lì un sorriso. Chiuse la porta, scivolò nel portico, verso l’ufficio. Tra la pioggia e le lacrime di un’emozione grande.

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Amore mio (la storia delle amiche tradite)

Amore mio (la storia delle amiche tradite)

Si, l’aveva tradita. Quella stronza, l’aveva tradita.
Aveva bisogno di lei, le aveva aperto il cuore, e detto quello che era accaduto, quello che lui aveva detto, ciò che lei aveva pensato, ciò che aveva risposto e deciso, e tutto, tutto quello che le volava nella mente. Così, come fai con chi ti fidi davvero. Prendi una tastiera, prepari la mail, e scrivi tutto. Butti giù le emozioni dandoti delle lettere sparse, veloci, sofferenti, troppo amare per poter piangere, anche se il limite è lì, presente, e gli occhi gonfi, d’orgoglio e lacrime.

E lei, quella stronza.
Quella stronza da cui si aspettava la parola giusta, l’abbraccio, la comprensione, la compassione. O anche solo il silenzio, l’ascolto. Con l’intimità che le ha sempre legate, con l’empatia quasi irreale che le legava, anche a chilometri, a mondi diversi, a miglia di esperienze e quotidiani a separarle.
Stronza. Stronza, cosa voleva da lei? Allora è come tutti gli altri?
Ah si, è come tutti gli altri. Pensa quello di lei. Non capisce.

Ah sicuro, non capisce un cazzo.
Ma vada al diavolo. Non può fidarsi di nessuno, è sola, ma lei da sola ce la fa’, vedrai se non ce la faccio, eh.

Forse le amiche migliori son quelle che tacciono, che ascoltano, che annuiscono, che ti danno sempre ragione.
Forse son quelle che ti rispondono dicendoti quello che ti aspetti ti venga detto.

O forse, sono quelle che ti dicono cose spiacevoli, che non vuoi vedere, e affrontare. Son quelle che capiscono, ma che tu non vuoi ascoltare, e allora vuoi fraintenderle, e litigarci, e allontanarle, con quella bella bugia del “sto benissimo anche da sola”.

No, noi abbiamo bisogno di essere soli, ma insieme. Niente amori per la vita, ma tratti di strada insieme, perchè anche l’opinione di uno solo non può andar bene, ci ridurrebbe a cloni di idee, microcosmi chiusi al resto delle esperienze.
Però, per una volta, avrei voluto dirti che sei in pericolo, ma non vuoi ascoltarmi. Chissà che sia un altro, a riuscire a farlo.

Amore mio.

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ancora

ancora

Scivolò fuori dalle lenzuola, le caviglie strette ad accarezzare il limite del letto, le mani distratte in cerca di una maglietta troppo grande per coprirla dal primo brivido della mattina.
Il sole già si intrufolava nell’intimità dell’alba, inondandole la cucina di riflessi d’allegria.
Una doccia calda, caldissima, a toglierle le carezze e gli umori dell’amore, un getto fitto a pettinarle i capelli, correndole attorno al corpo ancora intorpidito. Gli occhi chiusi, senza alcun pensiero dentro. Una pace, estrema, e l’aver scordato il giorno, l’ora, il mondo attorno.

Un accappatoio caldo a stringerla a se’, il volto senza trucco come d’una bambina, a sorriderle appena nello specchio, sognante, mentre ridisegnava l’ordine dei capelli. Una giostra di sensazioni, di parole, di imbarazzo nel ricordo del suo poco pudore, quella notte. Dell’aver dato, dell’aver chiesto, dell’aver guardato negli occhi, senza ritegno. Il gioco eccessivo delle parole, il lieve osceno, la giocosa volgarità. E sciogliersi nel sonno, tra le braccia di un affetto.

Il giorno villano stava già prendendo possesso della città, come a voler rimettere le cose in sesto, volendo spegnere l’aura di sogno, riaccendendo l’ordine degli appuntamenti, l’orario dei pullman, le televisioni accese, le urla dei bambini in gioco per strada.

Si infilò di nuovo nella sua stanza, impedendo al giorno di riprendersela, cercando ancora il calore della notte sul suo posto, nel letto. E anche lui se la riprese, in un abbraccio quotidiano, ritrovando il calore della pelle su di se’. E piano, senza far rumore, le disse amore, amore, amore.. ho ancora voglia di te.

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la compositrice.

la compositrice.

Era l’ora. Si sedette alla scrivania, prese la matita, e iniziò lentamente a temperarla, con dolcezza. Ne’ troppo lunga, che si spezza la mina, ne’ troppo corta, con la punta troppo spessa. Gesti lenti, controllati, con la sua serenità che le faceva danzare le mani.

Prese la sua carta musica, come una terrina piena di farina e lievito, pronta a gonfiarsi di suoni immaginati.
La preparò, senza altro sotto a far spessore, disegnò una chiave di violino, con attenzione. E si ritrovò ai piedi di un sentiero, pieno di cose da scrivere, pensare, controllare, e le parti da fare, e le trasposizioni, e le scelte. Quel sano sconforto di chi ci metterà un po’ per arrivarci alla cima, della sua musica.
E senza pensarci troppo. Macchè. Ci aveva pensato eccome, ogni piccolo particolare era spuntato fuori nella sua vita normale, banale, ripetitiva, a suggerirle un accenno, un suono, una pennellata, e lei l’aveva memorizzata nella cartella segreta, quella in cui teneva i sogni, le paure, la volontà.

Cancellò. Cancellò la chiave di violino. Ondeggiò la testa, in cerca del ritmo dei pensieri, ascoltò dove cadeva il suo accento, una danza che la travolgeva, prese la matita e la scrisse, semplice, e tutto quel ritmo dentro la testa era davvero semplice da scrivere, persuasivo, indomabile. Sorrise. Siamo in cammino.

Respirò. Cercò i suoni. Li scrisse a parte in fila, il colore delle voci degli strumenti preferiti, con in testa il respiro, il respiro unico che li trasportava, e mano a mano che dentro suonavano li cambiava, come a cercare l’immagine giusta in una cartella di fotografie. Creò un tessuto di suoni, di colori, di voli. Le dita sicure sul piano, a scivolare lì dove è giusto che volino, cadendo sui punti che più le facevano vibrare l’anima. Perchè non c’è regola, che non quello che a lei piace. Non c’è teoria, non c’è logica se non quella del suono che ti rimane dentro. E chissà se è lo stesso che piace agli altri, così come non lo so se questo fiore giallo è lo stesso giallo che vedi tu, o è solo perchè ci siamo messi d’accordo che si chiama giallo…. Giallo. L’oro di una tromba che mi sussurra una melodia, quella melodia che nasce da sola, e non la sai modificare perchè esce già giusta così. Giusta, così come esce. Come esce.

E il pennello intinto della sua musica continuava a dipingere suoni, freneticamente calma.

Strutturava gli ensemble, come se un gruppo di fiati le suggerisse dentro nota per nota, non aveva che da scriverli. E tutti erano già nella testa, perfetti, e si scambiavano, e modificavano il discorso, e si contraddicevano, interrompevano, gettavano le parti per prender la parola sugli altri, in un’ordinatissima confusione.

E i clacson dell’incrocio del mattino, la voce della vicina a chiamare i figli per cena, la televisione che chiacchera mentre la teiera fischia, il cancello di casa, l’obliteratrice del pullman. E il vento tra gli alberi, e la laguna silenziosa e liscia, e i respiri addormentati del suo amore immenso. Gli occhi puri di un bambino, le sue ciglia lunghe ed attente, la pace di un gatto appisolato sul letto, la luce della domenica mattina tra le fessure del balcone. Tutto era già stato ascoltato, e si metteva insieme magicamente, senza incrinarsi, senza scontrarsi, senza prevalere, senza gridare.

E raccolto tutto, arrivò alla fine, a metter due staghette, una sottile, una più spessa. Controllò, corresse, aggiungendo, togliendo, misurando, come se un quadro immaginato fosse ora lì davanti a lei, silenzioso solo per chi non sapeva ascoltarlo.

Appoggiò la matita stanca, chiuse la carta musica. Sentì tutto dentro di se’, svuotato. Come se ormai nulla le fosse rimasto, di quelle note.

E si svegliò, in un mondo normale.

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