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ich tus

ich tus

Spesso ci sono cose più importanti, più serie, più gravi. Già.

La mia gatta, l’arzilla sedicenne Jazz, ha avuto un ictus. Due settimane fa ormai, di notte, rantolava in mezzo al corridoio, storta, sguardo drogato, slanciando le zampe qua e là. Mi sono detta, okay, mi lascia, la tengo in braccio e la saluto con calma. Niente lacrime e pianti, ma il solito pragmatismo e un freddo programma di azione: come dirlo al pupo, veterinario, dove seppellirla, pensare se l’altra gatta sia bene lasciarla sola o trovarle altra compagnia.

Insomma, fredda e calcolatrice, che insomma, son solo gatti.

Poi invece scopri che lei tiene botta, piano piano la pupilla torna normale, mangia, miagola. Non si ristabilisce, ma non molla. Non si alza, non arriva alla lettiera, dimagrisce, ma tiene botta.

Sta cosa dell’ictus mi giunge nuova, non ne sapevo nulla. E come sempre, cerchi in rete informazioni, chiedi ai veterinari, provi ogni cura immaginabile. Cerchi di comprendere fino a dove puoi sperare in un “risveglio”, in uno stato che le possa dare qualche altro anno dignitoso.

E ne senti di ogni. Ti chiedi se è bene sperare, se è il caso di non curarsene troppo, aspettare il corso della natura. Prosegui con le tue cose, organizzandoti per assisterla insieme a tutte le altre priorità, figlio, lavoro, studio, vita.
Cucini, studi grammatica col ragazzino, lavori sul mac, telefoni, e ti cade lo sguardo su quell’arruffato esserino peloso che dorme, come nulla fosse. Ti prende l’ansia, che ti squarta in due. Pensi che stai facendo tutto il possibile, e forse è inutile come l’ultima volta.

La vedi incapace di alzarsi, perde l’equilibrio e rotola dall’altro lato, miagola perchè si ritrova bagnata, il suo bel pelo persiano accorciato per tenerla più pulita, e uno sguardo a volte vuoto, a volte solo stanco.

Ecco, tutto qua. Ci sono cose più gravi, sicuro.
Ma mi dispiace, mi dispiace da morire.

Buona notte

Buona notte

Scivoló sotto le coperte, spazzolando i capelli e cercando di automatizzare il sonno. Dall’altra stanza i suoni accennati di un film a volume basso, l’alone di luce che cambia a scatti sulla parete del corridoio.

Vado a dormire, okay buona notte.

L’imbarazzo di andare a letto insieme, e voltarsi le spalle senza un abbraccio, senza provare ad aversi, o addirittura dover parlare, rispondere alle domande vere, fuori dai dialoghi di servizio, oh no, molto meglio rimaner sveglio ed attendere che lei dorma, innocua.

Lontani

Sarebbe bastato parlare, ma erano stanchi di farlo. Lui non trovava mai le parole giuste, lei comunque travisava investendolo di discorsi, e da una briciola scendeva una montagna. Non valeva la pena.

Dal salotto si spense la luce, rumori di interruttori e ciabatte stanche che venivano verso la stanza. Lei faceva finta di dormire, zitta, ferma. Avrebbe avuto bisogno di un abbraccio, ma il rancore era così forte che l’avrebbe trovata gelida ed infastidita.

Eccoli, uno voltato da un lato, una dall’altro. Un muro di abitudine e di malumore, di dimenticanze e scontatezza, vicini un istante ma guardandosi bene dal toccarsi, nemmeno per sbaglio.
Senza ricordarsi più il perché.

Buon compleanno, Flauta.

Buon compleanno, Flauta.

Ti volti indietro, e vedi l’anno passato.
Un anno fa, mi son svegliata con gli auguri del mio papà, ben prima di sapere che mancava poco a perderlo dalle mani. Avevo ancora qualche esame, prima di stupirmi di me. Avevo ancora dubbi, che nemmeno l’alloro e le lodi mi son bastati a demolire. Avevo un amore, ch’era amico, ch’era amante, qualcuno di cui occuparmi con istinto di negazione, con grande affetto ma ancora tanti modus operandi del passato. Avevo un figlio, perso ed infelice, che non sapeva vedere nello specchio la sua immensa anima, ed il suo reale valore.
Avevo le stesse rughe che non ho ora, avevo gli stessi occhi stanchi e la stessa stanchezza nel mettermi a dormire, la sera, raccogliendo scampoli del giorno per prepararli a quello dopo.

Ti volti davanti, vedi quello che ti aspetta.
Orfana di origini, con ancora cose in sospeso con famiglie-non famiglie. Ho il materiale fresco da modellare, e le mine delle matite già appuntite, per disegnarne i progetti.
Ho un amore sempre più grande, ormai depurato dalle paure e dai condizionamenti, che sa rendermi… libera. E il mio piccolo uomo, che ora combatte i draghi con le armi giuste, e tenendomi per mano inizia a scalare la cima della propria autostima.
Ho le stesse rughe che non avevo prima, avrò gli occhi stanchi e la stessa stanchezza nel mettermi a dormire, la sera, ma raccoglierò scampoli di giorno che mi piaceranno di più.

Ho un anno in più, ma solo perchè avevo tante cose da fare. Per il resto, sono uguale.

Certe notti, notti certe

Certe notti, notti certe

Poi ci son sere in cui vorresti attenzione, perché non riesci a metter a fuoco cosa non funziona, ma quel che è certo è che non funziona. Ma il resto del mondo è occupato a farsi sostenere da te, e risponde occupato.
Son sere in cui senti la confusione fuori, e il silenzio dentro di te, un silenzio tremendamente assordante.

La soluzione migliore? Pianificare.
Sistemare i tasselli, programmare gli interventi urgenti alla propria vita, rimandare quelli che prevedono un vago senso di decisionalità lucida.

Perché di momenti simili ne incontri sempre. Periodi in cui hai troppe cose da fare, e a volte son così fastidiose da esser rimandate all’infinito.
Ecco, io quando mi ritrovo con mille cose da fare, la rata del condominio da saldare, il tagliando della macchina, l’appuntamento con l’agenzia, la definizione di un tal progetto, la visita dal dentista, il rinnovo dell’imob, la macchina del caffè da riparare, e scrivere quella cosa sul blog, e… e…
Ecco, son tutte scuse. Per impegnar la testa con cose che mi impediscano di pensare al vero problema. Vero, o presunto tale. Ma comunque, abbastanza doloroso da dover essere “nascosto” da mille scemenze urgenti, da procrastinare all’infinito.

E poi ci sono sere, si diceva.
Tipo questa.

la fine delle vacanze

la fine delle vacanze

L’ultimo giorno ti devi svegliare presto, prima delle dieci. Ti sciacqui la faccia, e fissi i tuoi lineamenti senza trucco, che per giorni hai potuto evitare. Raccogli gli spazzolini, il balsamo, il costume messo ad asciugare. Impacchetti le tue cose, hai ancora un’unica maglietta pulita rimasta, giusto per il viaggio. Fai colazione, tra mille tipi di marmellata, le torte fatte in casa, e la frutta, la frutta fresca. E da domani, briosche e caffè in piedi, al bar. Chiudi il caos delle tue vacanze nelle valigie, raccogli i ricordi, sparsi in conchiglie, biglietti, sabbia e pelle ambrata. Carichi la macchina, senza ricordare la logica con cui hai composto gli spazi alla partenza. Saluti al parcheggio le amicizie delle vacanze, che non incontrerai mai più nella vita, saldi i conti, lasci lo sguardo sulle sdraio di legno, in mezzo al prato, da dove hai visto le stelle ogni sera. Ti riempi gli occhi dei colori dolci dei fiori, del celeste del mare, lì in fondo, oltre l’ultima curva delle colline marchigiane. E riparti per la tua vita, uscendo da quell’immagine da salvaschermo che ti è passata velocemente addosso. Si torna a casa, dopo aver visto il paradiso.

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Scesa dai tacchi

Scesa dai tacchi

Inciampo’, da sopra quel tacco troppo alto e pungente, in quel canyon formato dallo scalino e la carreggiata sporca di polvere e vite di passaggio.
Inciampò per lo sgambetto dato dai suoi pensieri, che le aggrovigliavano i movimenti, ingrossando le caviglie ed appesantendole i passi. L’inerzia e l’inedia del corso della sua giornata, senza fermarsi un istante a smettere, smettere, smettere di pensare.

Inciampò. La mano ad accarezzare la caviglia, tentando beneficio da una coccola inutile,come se frizionandola le potesse scomparire il dolore delle sue scomode certezze.
Non riusciva a riappoggiarla a terra, a caricarla del peso del suo corpo, e delle sue responsabilità. Si appoggiò ad un palo, guardandosi intorno smarrita, alla ricerca di un punto dove potersi sedere un momento. Non c’è mai, quando lo cerchi, un posto dove poterti mettere in stand by un poco.

Ci provò, niente, il dolore era troppo forte, non riusciva a proseguire. La bellezza di quelle scarpe troppo alte, troppo belle per potersele godere, troppo perfette per alzarla sopra gli altri, dandole il ruolo che nemmeno da se’ sapeva meritarsi.
Si appoggiò sul bordo rialzato di una vetrina, impacciata nei jeans troppo stretti, forse per tenerla su come un’impalcatura. La sua immagine di ritorno, riflessa sul vetro del negozio. La sua immagine senza le sue certezze e sicurezze e protezioni, senza il suo ruolo. Lì, una semplice donna di quarantanni (ne ha di più, lo sa, ma vuole dimenticarseli), azzoppata dalla sua autostima, il viso scavato da troppi sorrisi perduti, le mani magre e troppo in ordine, gli occhi senza fondo. Cos’era diventata?… Ma figurati, scacciò la riflessione idiota, da filmetto di terz’ordine. Sono un dirigente, ho degli impegni, degli incarichi.

La caviglia pulsava. Cinque, sei anni prima (oddio, quand’era l’ultima volta che?) avrebbe chiamato lui, lamentandosi imbronciata. Lui che l’avrebbe presa in giro, per poi raccoglierla e curarla, come una bimba col ginocchio sbucciato, e alla fine avrebbe riso, perchè davvero i tacchi non le piacciono, non si corre, non si gioca coi tacchi, si fa troppa confusione per i corridoi, coi tacchi. Preferiva stare scalza, la mattina, con addosso la maglietta di lui, a ciondolare sulla sedia della cucina con la tazza di caffelatte, con sopra un po’ di cioccolato, e i biscotti, i biscotti intinti dentro, attenta a non immergerli troppo altrimenti si squagliano subito…. E i suoi capelli, spettinati dalle carezze e dall’amore, le sue guance ancora arrossate dall’imbarazzo del piacere, nascondendo lo sguardo per la lieve vergogna di aver, forse, perso il controllo delle parole e dei respiri. Il suo caldo abbraccio, forte, protettivo, imperturbabile, nel quale sentirsi al sicuro. Al sicuro. Senza il bisogno di doversi difendere da nulla.

Prese il Blackberry, chiamò la segretaria “mandami una macchina, ho avuto un contrattempo”, tornando con metà della mente al suo ruolo, e l’altra metà a pensare all’assurdo, del suo vecchio piccolo nokia coi tasti smarriti, e i pupazzetti che ciondolavano attaccati. Un’altra vita, altre scelte.

Voltò pagina, e proseguì.

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su, giù.

su, giù.

La capacità di salire, salire sempre più su, e gioire della propria esistenza presente.

Sentirsi bene, con la forza di un leone.
Avere attorno ciò che si è sempre desiderato, essere ciò che si è sempre sognato diventare.
Così, semplicemente, in quest’ordine.

E poi, implacabile, scivolar giù nello sconforto, per nulla.
Senza voglia di uscire, vestirsi, pettinarsi i capelli.
Sentire tutto attorno insopportabile. Sentirsi, insopportabile.

E aver voglia solo di rinchiudersi in casa, sul divano, guardando pessima tv.

E attendere il prossimo volo.

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Un giorno, adesso.

Un giorno, adesso.

Un giorno ci lasceremo.

Senza clamore, senza sapersi dire molto, stanchi e provati da litigi ed incomprensioni, o solo scevri di passione e troppo fratelli per poterci dire amanti.

Divideremo con calma il mio e il tuo, che prima erano il nostro.
Avremo moti di rabbia sommessi, raggrinziti dall’orgoglio, e ci tratterrà dal discutere solo l’idea di una nuova vita che si prospetterà di fronte.

Raccoglieremo quadri, musiche, maglioni, in scatoloni divisi, lasciandone l’ombra sui muri, le orecchie, addosso.
Avviseremo gli amici, e ce li divideremo poco a poco, accantonando l’affetto che ancora ci rimarrà dentro, in uno sgabuzzino del cuore, assieme alle carte della nostra vita insieme.
Ed ogni volta, parlandone, troveremo nuove scuse per dar colpe all’altro, come se tutto quel che eravamo fino ad allora non l’avessimo amato in ogni millimetro. Avremo motivazioni irreprensibili, giustificazioni logiche, come se quella fosse stata l’ideale risoluzione di un contratto che aveva smesso d’esser proficuo per entrambi. Le recriminazioni, ormai, saranno archiviate come.. inutili.

Tu avrai un’altra, forse, io avrò un altro, forse.
E parleremo l’uno dell’altra come ora facciamo di chi è passato nel nostro letto prima, raccontando i fatti e le parole, e celando l’amore. L’amore, quello che un giorno, svegliandoci la matttina, puff, scomparirà. E rimarrà qualcosa che non sapremo collocare, tra l’abitudine, l’amicizia, l’affetto e la stima.
Ci diremo soltanto, vabbè, è finita. Forse uno dei due non vorrà mollare subito, forse io, forse tu. Forse soffriremo, e ci andrà in pezzi il cuore, un rumore sordo, senza più musica.
Gireremo nelle nostre stanze, senza trovarci. Soli, senza di noi.
Riusciremo a non incontrarci più, a dividere le strade, a separarci il futuro, e le note.

E piano piano, non saprò più nulla di te, dimenticherò la tua voce, le tue mani, il tuo modo di mangiare il gelato girando il cucchiaino, i riccioli bagnati sotto l’accappatoio, il caos della tua macchina e dei tuoi fogli. E forse, anche i tuoi occhi chiusi e la tua testa reclinata sulle dita.

Ma adesso, suona ancora per me. Perchè adesso, adesso non voglio pensarci.

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il concerto per la nonna

il concerto per la nonna

La nonna si sedette sulla sedia, alzando al massimo il volume dell’apparecchio, e un sibilo partì come fischio d’inizio del concerto. 

Il piccola grande artista, spinto dall’inerzia dell’entusiasmo, seduto in terra coi suoi bonghi tra le ginocchia, iniziò il suo pezzo. Un assolo, improvvisato, uscito chissacome chissadadove, nella sua fantasia di bambino. E imitando i suoni che lo hanno cresciuto, svolse la matassa delle sue note, giocando coi ritmi e con gli accenti, imparati senza volontà forse, colti nel prato delle musiche che ha incontrato, gettando le dita sulla pelle di quei tamburi come pennellate di un geniale ed inconsapevole giovane Van Gogh. Più piano, più forte, cresco, diminuisco, tutto un discorso logico nella sua mente, come non si potrebbe mai spiegare in altro modo.

E poi ancora, a scegliere cosa suonare ancora, con la sua mamma e Giulio. Una mamma che non sa, che vede l’inerzia dell’incoscienza spegnersi negli occhioni azzurri del piccolo percussionista, la paura di non essere capace, di far figuracce, di cosa come perchè. Vederle in lui, rivederle in se’ stessa. E chiedergli senza parole, tieniamoci per mano, magari riusciamo a farlo, tutti e tre, insieme, a superare i piccoli guadi che ci separano.
Everybody need somebody to love. Ma blues.

Vedere come l’essere stati la stessa carne li rende uniti in un’empatia superiore, e come la logica della struttura, delle note, e di tutte quelle cose che in musica non si possono insegnare, erano tutte dentro quel cuore di bambino. E in fianco, l’aria fresca, equilibrata, affettuosa e sincera a sostenerci. E la mamma, chissà che suonava, era intenta a controllare l’emozione di vedere il suo piccolo capolavoro all’opera, e le dita andavano da sole, senza farsi dir nulla.

La flautista, il pianista accompagnatore, e il grande percussionista, finalmente insieme nella loro prima jam. 

E da qui si comincia.

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Il concerto per la nonna

Il concerto per la nonna

La nonna si sedette sulla sedia, alzando al massimo il volume dell’apparecchio, e un sibilo partì come fischio d’inizio del concerto.
Il piccola grande artista, spinto dall’inerzia dell’entusiasmo, seduto in terra coi suoi bonghi tra le ginocchia, iniziò il suo pezzo. Un assolo, improvvisato, uscito chissacome chissadadove, nella sua fantasia di bambino. E imitando i suoni che lo hanno cresciuto, svolse la matassa delle sue note, giocando coi ritmi e con gli accenti, imparati senza volontà forse, colti nel prato delle musiche che ha incontrato, gettando le dita sulla pelle di quei tamburi come pennellate di un geniale ed inconsapevole giovane Van Gogh. Più piano, più forte, cresco, diminuisco, tutto un discorso logico nella sua mente, come non si potrebbe mai spiegare in altro modo.

E poi ancora, a scegliere cosa suonare ancora, con la sua mamma e Giulio. Una mamma che non sa, che vede l’inerzia dell’incoscienza spegnersi negli occhioni azzurri del piccolo percussionista, la paura di non essere capace, di far figuracce, di cosa come perchè. Vederle in lui, rivederle in se’ stessa. E chiedergli senza parole, tieniamoci per mano, magari riusciamo a farlo, tutti e tre, insieme, a superare i piccoli guadi che ci separano.

Everybody need somebody to love. Ma blues.

Vedere come l’essere stati la stessa carne li rende uniti in un’empatia superiore, e come la logica della struttura, delle note, e di tutte quelle cose che in musica non si possono insegnare, erano tutte dentro quel cuore di bambino. E in fianco, l’aria fresca, equilibrata, affettuosa e sincera a sostenerci. E la mamma, chissà che suonava, era intenta a controllare l’emozione di vedere il suo piccolo capolavoro all’opera, e le dita andavano da sole, senza farsi dir nulla.

La flautista, il pianista accompagnatore, e il grande percussionista, finalmente insieme nella loro prima jam.
E da qui si comincia.