Guadi, refrain.

Guadi, refrain.

Un mese fa mi si è rotto qualcosa.
Una brutta discussione, di quelle in cui rimani basita dalle parole, dai discorsi e dai concetti fuori dal mondo. Stai lì come un ebete, senza sapere nemmeno come reagire, consapevole di essere uno sfogatoio di mille altre cose accadute, un povero cristo prescelto per prendersi tutti gli insulti destinati a quelle due ultime settimane. Ho cercato di difendermi, in cuor mio so di aver bontà delle mie ragioni, ma in verità devo difendermi da altro, non da un avvenimento, ma da tutto altro. Altro che ha enormi controsensi. Non capisco. La testa mi scoppia, sono stanca, ho dato molto, ho portato alla meta molte cose con fatica, ma arrivata in cima, quando nessuno ormai vede, vengo presa a schiaffi.

E’ una sensazione che ho ancora addosso. Provo a sganciarla da me, provo a passar sopra e dimenticare, provo a chiarire le priorità, riflettendo con lucida analisi. Decisioni ovvie da prendere, che però coinvolgono altri, i cui volti mi passano in rassegna davanti agli occhi, con le loro voci, le loro idee e progetti. Ma nemmeno il non voler condividere una visione così distorta, certamente comoda, di una catena di montaggio, forse molto moderna ma completamente fuori dalla mia etica in cui l’allievo viene prima di tutto, di tutto. Ne ho parlato ancora, con gli amici fidati, senza riuscire a far comprendere quanto mi faccia ancora male, probabilmente.
Andrò oltre, come ho sempre fatto. Ma addosso ho lo sgomento di chi ha fallito, per troppo entusiasmo, per troppo amore per questo mestiere, per l’abnegazione da educatore, e difensore, e mamma chioccia. E di certo il velo becero dell’opportunismo non mi appartiene.

E’ un dolore solitario. I ragazzi li prendi per mano, li sgridi, li proteggi, li lodi, li mandi sul palco seguendo con le labbra e il fiato ogni loro nota, e li lasci scendere ad abbracciare madri e fidanzati, che han avuto forse meno ansia di te. Dopo qualche anno scompaiono,  proseguono le loro vite, tengono la musica come lavoro o come ricordo, o come parte della loro pelle. E quando li incontro, sono felice di averli aiutati o anche spinti a salire uno scalino in più della loro vita, dietro le quinte.

Non ho ancora deciso cosa fare. Sto qui a martoriarmi lo stomaco cercando la via più logica, consapevole che si chiudon porte e si aprono portoni, come è successo altre volte. E forse le situazioni troppo totalizzanti a volte è bene lasciarle andare, che tolgono troppe energie. Questa, come altre.

Ecco, sulle altre sono ancora meno ferrata. Forse perché meglio concentrarmi su questa, che nasconde abbastanza bene tutto il resto.

Qualche giorno fa ho deciso di guadare un torrente. Dovevamo andare dall’altra parte. Una cosa non complicata, abbiamo trovato il punto meno pericoloso. Eppure mi son ritrovata ferma, immobile, senza riuscire a passare, dopo il primo passo, ne’ avanti, ne’ indietro. Scivolavo sulla roccia bagnata. Vertigini, panico, non lo so.
Ero ferma, senza forze, confusa, ne’ avanti, ne’ indietro. Eppure, così al sicuro in quel limbo.
Forse gli amici di vecchia data capiranno. Me, e i miei guadi.

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