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Non c’erano mai tanti bambini con cui giocare. E allora lasciavo papà e Franz a lavorare in casa, quel piccolo orgoglio dei risparmi di un veneziano che adora la montagna, a far malte, impianti elettrici, e chissà cos’altro…io ero troppo piccola. E quando non ero piccola, dovevo salvare le mani per suonare. Eppure li avrei aiutati così bene. Sarei stata anche più brava di Franz, e meno pigra.
E andavo su per il sentiero dietro casa. In piena estate, con tutti quei fiori, con i grilli, le farfalle. C’era un profumo intenso, un silenzio, il deserto intorno, e il sole a picco. E io bambina, sempre da sola, che per dieci mesi l’anno vivevo nel cemento, le chiamavo "mie", quelle montagne.
Salivo su, fino a una casetta inondata da geranei colorati, tutto in un ordine svizzero, il legno intagliato dei parapetti, le tendine tirolesi. Li dentro ci stava la Signora Vittoria.
Era una donnina diversa dai montanari. Era bella, anche se già di mezza età, senza accento, senza intercalare, una nobile, un’intellettuale. Nella sua cucina c’era una stufa a legna, un tavolo, un cucu’ che alle sei regalava un teatrino di marionette che giravano, suonavano, un gioco d’altri tempi. E la donnina che andava su e giù sull’altalena della molla.
Andavo sempre dalla signora Vittoria, a prendere le caramelle. Ma non mi fregava una cippa delle caramelle. Mi piaceva stare lì, a guardarla mentre sfaccendava, rimpinzava la stufa a legna, cucinava la polenta, preparava con attenzione la tavola, la tovaglia a scacchi bianchi e rossi, due piatti, due bicchieri, le posate, i tovaglioli. E la bottiglia di rosso, che un bicchiere fa sempre bene.
Non era sposata. Viveva con suo fratello, falegname, uomo silenzioso, e buono. Lo incontro ancora, lui. Vive ancora lassù, ormai solo, avrà duemila anni credo…e mi saluta ancora. Anche se non ricorda chi sono, ne sono certa.
Mi sedevo sulla panca e le raccontavo…chissà cosa…la mia vita "cittadina", tanto lontana da quei suoi ritmi lenti; la scuola, la musica, e la solitudine. A casa nessuno mi badava, mi annoiavo. Avevo sei, otto, diec’anni, dodici. Passavo due mesi all’anno lì, e il mio amato papà usciva a passeggiare così poco con me. Avevo ettolitri di fantasia, ma alla fine si finiscono i giochi immaginari. Anche se, si, amavo quei prati, quei boschi, quelle montagne.
Era una vera signora. Mi guardava e consigliava con quell’intonazione serena, buona, confortante. Una duchessa tra gli alberi intorno. Una regina, tra i rudi montanari. Una letterata, in mezzo a poveri diavoli.
Devo averglielo chiesto, un giorno, perchè non era sposata. Per me bambina, era un’assurdità, due fratelli che vivevano insieme, senza altri legami. Non ricordo cosa mi avesse risposto.
Forse ha avuto un amore perduto, e lei, bella e colta, ha deciso di rimanere a farsi compagnia, con quel fratello burbero che vedeva solo al tramonto. Chissà se sorrideva, quando quella bimba bionda impertinente le diceva che si sentiva sola. Lei, che la solitudine la viveva, ma era ormai dolce compagna.
Ieri sera preparavo la tavola, due piatti, due bicchieri, le posate, i tovaglioli, e il vino, che un bicchiere di rosso fa bene, e l’ho rivista come un flash, nei miei stessi gesti. Nei miei stessi gesti. Nei miei stessi gesti.