Cosa sto facendo.

Cosa sto facendo.

Si raggomitolò nel pullover indossato confuso, la borsa, con le cose della sua vita che spuntavan da dentro, aggrappata  sulla spalla. Sotto di lei l’asfalto rotolava sotto i suoi passi, senza che un marciapiede, una strada, un incrocio, fossero differenti. Solo strada, quella che prima o poi avrebbe esaurito i suoi pensieri.

L’occhio a terra, l’angoscia liquida che le riempiva gli occhi, la vergogna di non potersi compatire per le proprie azioni deboli.
Aveva agito quasi d’abitudine, le era tornata addosso quella debolezza, forse mista all’essere annoiata, demotivata, masochista, sbagliata. Le erano tornati addosso quei gesti, che le riuscivano così bene, così naturali da convincerla che in fondo sarebbe nata per esser così.

Sbatteva le ciglia, e nel frammento di buio tornavano le immagini della penombra, la casa di un’altra, l’uomo di un’altra. Carezze e gemiti fuori dal tempo, senza un aggancio ad una buona ragione. Nei suoi gesti, non quelli da innamorata, quelli di chi sa che non deve confonderlo con l’affetto, continuava a dirsi, di continuo, “cosa sto facendo”.
Di nuovo, il ruolo dipinto addosso dell’evasa, della criminale, della cattiva ragazza. Lo stomaco chiuso e il benessere della sofferenza dell’uccidere ciò che di buono aveva ricostruito.
Chissà cosa pensava lui. Chissà perché incastrarsi in una cosa simile, pensava alla sua vita perfetta, senza motivo di cercare altro svago sporco. Ma anche no, non ci pensava a lui. Aveva scopato con lui, aveva scopato con l’idea d’odio che ritrovava in quel gesto, odio per ciò che non era capace di diventare … pulita.
E non c’era amore, non c’era tenerezza, solo l’incontro di due solitudini insulse, senza nulla in comune, se non l’angoscia e la codardia di cercare una vita normale.
Si strinse addosso la borsa, per abbracciarsi un po’. Per un istante tutti attorno si fermarono. Le auto immobili, spente. La gente affacciata fuori dai negozi, dalle finestre dei piani più alti. Vecchi, bambini, famiglie, innamorati, abbandonati. Tutti, all’unisono, alzarono un braccio, il dito puntato su di lei.

Oscena, per non saper fuggire dalla perversione.
Sbagliata, per non aver saputo accontentarsi di un amore normale.
Condannata, perché quell’angoscia le nutriva l’anima, la teneva in vita.

Le braccia puntate come armi, alla sua consapevolezza di non saperne fare a meno, di non essere convinta che quell’amore normale andava protetto, e difeso, e premiato dal sacrificio, dalla fedeltà.
Le carezze del tradimento ancora addosso.
Attorno il mondo andava, senza accorgersi di lei. Nessun braccio alzato, se non quello della sua se’ stessa carnefice.
Riprese la strada, mise in piedi un castello di bugie a caso, sorrise al ragazzo coi fiori, si fece stringere nell’abbraccio, accolse il suo bacio. E si lacerò, per non riuscire a provar vergogna.

 

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