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…e poi ci son quelli che commentano.

E commentano da Dio. Ti fanno scompisciare dalle risa.

Non ci sarebbero blogstar senza il relativo seguito di splendidi commentatori.

Peccato che poi, se questi si aprono il proprio loco di disgressione, non tengono botta, si dilaniano in tentativi di imitazione, o provano la carta dell’originalità, o quella del blog-diario, in quanto convinti di avere una vita pregna, ma così pregna da sgorgare post a profusione.

Sintesi: chi commenta da Dio ha un blog che fa cagare.

 

(io commento da Dio)

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Le luci della festa, dietro, e io che saluto in fretta, un bacione sulle guance, che voglio scappare via. Si, calma, un piede davanti all’altro, ostentiamo normalità. Niente fuga alla Karl Lewis.

Domani ti chiamo, dico, e va là, che lo so che non chiamo. Ho già deciso tutto, in cuor mio, ancor prima di uscire stasera, che sarei stata volentieri a casa a piantar quadri e rimpiantar fiori. Soffoco l’istinto, e quello mi arriva sul collo, come un’ascia, secco, a spingermi a fare ciò che voglio fare. E allora scappo via. Non è proprio la storia giusta questa.

Nell’immenso lettone dormo di traverso. Abbraccio a turno i due cuscini, mi rotolo, mi piazzo a ics, cerco un filo d’aria dalla finestra. Sembro un gatto, quando si srotola indegnamente a pancia all’aria.
Marò, come me le racconto bene le favole.

Sono inguaiata, ecco cosa. E mo’ , o do’ la cera alla vecchia vita, o la cambio, o la butto. Che poi, le tre opzioni sono interscambiabili.

Un bicchiere di lambrusco, con una schiuma strepitosamente viola, e il panorama di tetti. C’è da mettere la testa a posto, adesso. Un pacco di coraggio al supermercato, mi ci vuole. In mezzo alla disperazione di questi giorni, salta fuori la via più illogica, piena di rovi che ci passi in mezzo, e non cicatrizza più. Eccola lì, appare nella schiettezza della mia casa, come uno schiaffo in pieno volto.

Però, Dio Santo, ora almeno quel che voglio lo so. Donna incosciente sono.

roxanne…

roxanne…

Se mi devi insultare, segui la massa, dammi della puttana.

Questo sport popolare consiste nel fare allusioni sulla vita sessuale di una donna, solitamente ex moglie o ex amante, condendo con abbondanti metafore e amene oscenità.

Si parte dalla dicitura colorita degli usi e luoghi corporei, ci si sbizzarisce sul numero dei beneficiari, si specifica fantasiosamente sulla tipologia dei rapporti. La terminologia dell’atto si coniuga nei vari scopare, trombare, anche se in sensibile ascesa c’è lo "sbattere", forse per l’evidente diapositiva che il verbo suggerisce.

Il mio ex marito stamane mi ha illustrato la sua opinione sul mio modo di vivere, corredando con curiose metafore le orgie di gruppo a cui, a quanto sembra, parteciperei a giorni alterni. C’è pure qualche allusione ad un pronunciato lesbismo, probabilmente.  Fondamentalmente, nella vita, non farei altro.

Il mio uomo sbagliato propende invece per la versione sesso selvaggio, che la calura estiva mi suggerirebbe. Intratterrei via sms molteplici relazioni (ignoro come sia possibile il coito via sms) e mi divertirei in allegri festini (sadomaso?) con l’atmosfera della notte e la singletudine e libertà data da moroso lontano (inesistente?) e figlio in ferie. Per non parlare dei miei concerti, veri raduni di perdizione, in cui il sesso tantrico fa da padrone. Sono insaziabile, via.

Ma in sostanza, mi chiedo: se fosse, …………è un insulto? A me pare un piacevole augurio, una sana invidia, e comunque disegnano un’immagine di me esaltante, di una che se la spassa proprio.

Segui la massa, dammi pure della puttana. Chiamatemi….Roxanne.

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Ho la voce rauca, un’ora di sonno, il sale del mare ancora addosso, e negli occhi esplosioni di fuochi colorati nel cielo.
Davanti allo specchio, in un camerino di fortuna, coloravo di nero gli occhi, la maschera di scena per salvarmi, e coprirmi, l’anima disperata. Le mie dita pronte a scivolare sui tasti, vomitando note di rabbia travestendole di funky. E la nausea, la nausea delle bugie, del modo perverso con cui quell’uomo mi ama.

E poi, lui, che non ricordo il suo volto.  Non l’ho nemmeno guardato, credo, che non è nei miei canoni. E nemmeno ho fatto due conti, due valutazioni del caso. Non ho nemmeno fatto la gatta.

Ridevo, scherzavo, cantavo. La solita flauta compagna di giochi, così come sono. Senza provare a mentire. E un bacio grande, colmo di affetto, a riempirmi la guancia, in un mezzo abbraccio di chi sembra conoscersi da più di sole dodici ore, ed albeggia già.

Finisco i miei seicento chilometri, arrivo sotto la mia casa del compromesso, questo dannato vicolo cieco. Mi chiedo se sono legittimata a sciogliere i legami d’obbligo che ho, ora.

Non so se sperare in un’altra bugia, o in un’onesta verità, e di un colpo di scena. Come rianimare una speranza moribonda.

Oppure, che lui mi chiami. E che io abbia il coraggio di buttarmi, in qualcosa che non sia una notte.

Dormo un’ora, il telefono mi vomita cattiverie appena apro gli occhi. Cerca ancora il compromesso, temo non abbia davvero una coscienza. Nemmeno un caffè, e me ne vado in ufficio.

Dentro il bagagliaio, c’è una felpa dimenticata. Devo decidere io, che farne.

La battuta di ferragosto.

La battuta di ferragosto.

Scende dalla macchina, dopo una giornata di prati verdi e fiori che risveglierebbero i daltonici.

Che ci siam dette di tutto, direi. E invece no, ne avanza una. Una importante.

– ..lui sai…. lui ti ama da morire.

Appena smetto di ridere, penso che inizierò a frantumare di pugni i cuscini di casa.

Se sono arrabbiata? Assi, zia, incazzata come nei migliori film.

(chiuso il sipario, con la pioggia alla Blade Runner tutta intorno)

Calatrava Bridge

Calatrava Bridge

L’invito è, in questo desertico ferragosto, a guardare questo.

Primo, perchè è opera di Renato, un chitarrista speciale (lo sentite anche come soundtrack, infatti). Poi perchè è il contestatissimo ponte "moderno", che a me, non nego, piace. Anche se è difficile bypassare il fatto che sia costato un’indecenza. Qui c’è il romantico passaggio sotto il ponte di Rialto del concio centrale, sempre ad opera di Renato.

Venezia è la città in cui sono nata. Amo le sue calli, i suoi odori, i suoi problemi; la sua pigrizia, la sua puttaneria nel vendersi ignobilmente ai turisti, questi guardoni, gregge rimbambito che morde senza troppa poesia ogni palazzo, ogni campanile, ogni rio.

Senza capire, senza sentire, senza volersi perdere. Io adoro perdermi. Per ritrovarmi dall’altra parte, ignorando come.

E sto ponte? Probabilmente cozza. Magari avrebbero preferito una pessima imitazione dell’accademia. Ma a me, sto coso innovativo, moderno, rossiccio e mezzo trasparente, ispira. Penso ai racconti di mio zio, la Venezia contemporanea, con Nono,  con Sciarrino, con Poe, con Guggenheim, con l’arte e la poesia e la musica VIVA. Odio vederla sarcofago di storia e basta. Odio sapere che esiste solo Vivaldi lì dentro.

Quando ho potuto far la mia musica,  nella storica sala concerti di Palazzo Pisani, è stato come bestemmiare in chiesa forse. Eppure mi è sembrato risvegliare i putti degli affreschi. Giuro che ne ho visti alcuni battere il tempo col piede, sentendo il feel giusto, sul due e sul quattro.

E allora che sia Calatrava, perchè no.

 

Per i desperados del cazzeggio, vi butto lì anche quest’altro link, sempre medesimo operatore, qui nella sua veste giusta. La voce di Rosa merita, fidatevi.

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Il concetto è…. io un post impegnato lo scriverei pure. Inonderei questo insulso agosto con qualcosa di selvaggiamente profondo, o leggiadramente futile.

Ma poi chi lo legge?

Tutti in ferie siete, bastardi.

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E’ l’unica.

Balcone, sole e catino dove fingere il mare. E far finta di essere in vacanza.

Ho sbagliato, lo so che ho sbagliato. Una settimana (di febbre) all’elba, con gli amici (alias cucina, pulisci, fa la spesa…) all’Elba, troppo presto. E ora sono demolita, demolita.

Arrivano i colleghi, tutti abbronzatissimi e rilassatissimi, dopo quindici giorni di Islanda, Bretagna, Maldive, Corsica, ma pure Bibione Pineta. Ti raccontano dei pranzetti tipici, del mare beissimo, dei villaggi vacanze, dei meravigliosi paesaggi. E ti mostrano (apocalisse!) tre dvd di foto, tutte foto di panorami spettacolari. Non ha mai piovuto, non c’era troppo caldo, non c’era troppo freddo. E qui, e là, e però non si mangiava benissimo come qui in italia….

Già, a casa mia mangio meglio. Ma a casa mia non sto in ferie.

Ho fatto una grandissima, enorme cappella. Ricordatemelo, l’anno prossimo, che non ci devo ricadere.

Majorca, all inclusive, a fine luglio, villaggio vacanze con animazione per il nano, e assoluta mancanza di qualsivoglia rompimento di palle per la sottoscritta. Amaca, drink colorato e i migliori successi degli anni sessanta sull’Ipod.  Si. Manca solo un anno, ce la posso fare.

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Agosto porta all’isteria.

Eccoci qua, noi esuli figli delle ferie di luglio.

Qui a vagare per gli stessi identici link come fossimo invasati. Sperando in un nuovo commento, nuovo post, o nuova notiziola di gossip. Giriamo di link in link, scavando nei preferiti come un affamato in una dispensa vuota (che dico, manco la giardiniera dell’86 si trova più…). Cerchiamo su google ogni riferimento ad ogni nome, o nick del passato, consultiamo il meteo fino alle perturbazioni groenlandesi, e l’oroscopo 2008 (falsooo, falsooo..), impariamo a cucinare col microonde in tre mosse, e scopriamo l’ikebana dei tovaglioli di carta.

In sti momenti, mai uno scoop, un video porno su U-tube, un incendio, uno tzunami. Non c’è nulla da leggere, e nulla da scrivere. 

Vi prego, aiutatemi.

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Si, sono un’inguaribile ragazzina.

Posso contorcermi sulla panca di un piano mimando improbabili mosse da chitarrista epilettica, capello alla BonJovi first period, anima rock e altre affascinanti ciance. E sentire come musichina in testa l’Ombrella di Rihanna …..sarà che il titolo è in veneto. 

Sarà che ti prenderei davvero, qui sulla scrivania, di nuovo. Getterei in terra le carte inutili, senza altro ascolto che ai tuoi gemiti. Per riderne poi, riaggiustandomi la gonna, come due bambini che arrostiscono pannocchie rubate, con lo sguardo d’intesa dei migliori complici.

Voglio rimanere adolescente, e far la scema per la strada, sculettare salendo una scala, giocando scandalosa col ciuffo di capelli mentre chiedo un’informazione ad un vigile, rubare le gomme dal tabaccaio, suonare tutti i campanelli del mondo e fuggire via.

E chiamarti mentre guardi un film troppo spinto, e dirti qualcosa che tradirebbe la mia ostentata pudicizia.

Che me ne sento metà, leggiadra come una farfalla, chiassosa come una cicala, libera come la foglia nel vento. Nel cuore, più o meno, ho solo i cinque anni del mio primo amore.