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– ..che te sei bravissima cavolo, e facciamo un figurone, e se ci sei tu allora mi sta bene…

Cicci è un genio. Creativo, ma troppo indeciso per lasciar perdere il sudoku delle sue idee. La musica si compone con pochi schemi, solo idee, sensazioni, flashback, colpi di stomaco.

Ha riaperto il carrozzone, facendoci salire solo in due, e aggiungendone altri tre esterni, fuori dal nostro tantrico passato. Ignoro come diamine faremo a mettere tutto in senso in una domenica pomeriggio, ignoro cosa ci inventeremo l’otto dicembre. Ma ho un fremito stupendo che mi scuote.

L’odore dell’autogrill di notte, passarsi una bottiglia di cola in macchina, monta gli strumenti e studia i testi durante il viaggio. Il ghiaccio secco negli occhi, la faccia che si trasforma appena sali la scaletta del palco. Ancora nello stesso futile, enorme, opprimente ambiente. Che mi è mancato, sommersa dai miei sensi di colpa di mamma non lo avevo mai ammesso.

Lucido il flauto, ripasso gli stacchi, studio le voci. Mi chiedo dove, perchè, con cosa andrò a finire. Risalgo sul treno, e via andare. Convinta che il mio uomo tornerà ad ostacolarmi, convinta che tornerò col coma del giorno dopo, e forse qualche litigio da primadonna sul palco.

 Amo questo lavoro.

aggiornamento flauto..

aggiornamento flauto..

…e continuo a non dormirci la notte.

Uno scampanellio continuo, mi guardo allo specchio e penso…. dovrò cambiare piercing. Dovrò prenderne uno d’oro. E pure gli orecchini…. tutti d’oro. E il leggio, per far pandant, dovrò dorarlo con l’Uniposca. Raccoglitori per le parti…mmm… rosse. Velluto rosso, anzi. Che figata.

Qualche mail in giro, qualche chiacchierata con amici, e quella risolutiva con Edi. 

Rivista la scelta del modello, per ragionare sul pezzo in se. Insomma, non escludiamo gli uomini se non son per forza alti con l’occhio ceruleo e il quoziente intellettivo altissimo. Magari troviamo un modello che ci piace a prescindere.

Ringraziando il cielo i flauti si provano, gli uomini hanno implicazioni molto più macchinose e poco pratiche. Rimane lo scampolo di sinequanon che mi pongo innanzi, dev’essere leggero, facile, che possa suonare prima che io decida che nota fare, per empatia. Che mi suggerisca ogni tanto di fermarmi con qualche virtuosismo da esuberanza, per star li a godermi il suono di una lunga, magica, penetrante nota lunga. Che passi leggero per i cromatismi, come una farfalla sui petali di una margherita, toccandoli tutti come uno xilofono incantato. Un vibrato che accarezza i caminetti, si perde tra le chiavi per esplodere fuori, al mondo, cassa armonica delle mie emozioni.

E soprattutto, compagno di mille avventure. Ancora, in fianco a me, nella custodietta di cuoio chiaro, per svelarsi, montarsi veloce, e senza nemmeno un soffio caldo a scaldarlo, mettersi pronto a disposizione, a raccontare i miei trambusti d’anima al mondo qui attorno.

E adesso si aspetta. Si fanno duecentocinquanta chilometri a volta, se salta fuori quello papabile. E non si torna indietro. Il giusto premio per me, per il bene che mi voglio, per il bene che merito.

Definitivamente seppelliti i sensi di colpa, responsabilità, e blabla? …no. Ho solo deciso un paletto, messo lì, fisso. Oltre non si va. Ma il sogno, il sogno è possibile anche lì dentro.

Ed è stupendo avere ancora un sogno.

 

 

(miiiiiiiiiiiiiii che paaaaaaaaaallle fla…..)

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E ringraziando il cielo che c’ho la duecentoseigrigia. Che quattro quinti d’Italia ha la duecentoseigrigia.

Parcheggio scivolando tra un banco di nebbia e l’altro, a circa sedici chilometri dal negozio. Cappotto nero, bavero alzato, berrettino da beisboll con capello raccolto e nascosto, con ciuffi vergognosi che spruzzano di biondo la mia immagine, semiseria, da rapinatrice. Occhiale anni settanta, da tardona.

Che non mi riconoscerà nessuno, che diamine. Sto dall’altra parte del mondo. Mi avvicino alla porta… azz, esce qualcuno. Mi fisso a guardare una vetrina, un’agenzia viaggi. C’è un’occasione per un viaggio a Tumbuctu con figlio gratis. Non ho ben capito se non fanno pagare tuo figlio, o se torni ingravidata. Forse se mi fingo lesbica, vado con un’amica e non fanno pagare mio figlio. Poi mi tocca trombarmi l’amica. Indi devo trovarla gnokka. E bisex.
Ehm, dicevo, mi avvicino alla porta. Suonare. Ostrega, suono. Ma non mi aprono. Mentre aspetto passano due donne con i sacchi pieni della spesa dell’Upim (di baglioniana memoria), mi guardano con evidente disgusto. Io, pirla nel dna, sorrido e saluto pure.

Una mi dice "screanzata", l’altra un ben più secco "ma va a cagar ti e tuti i to morti cani e…". Mi aprono.

Entro. Faccio la disinibita, dentro di me lo so che farò una figura da cogliona di cui ne parleranno i posteri. Sarei più a mio agio nel bar alieno di guerre stellari.

La tipa mi guarda col sorrisino da presa per il culo. La stronza. Vorrei vederla, lei. "Davo solo un’occhiata".
Lei annuisce, ci pensa un po’ e, la troia, mi dice pure "se le serve una mano, se vuole provare qualcosa…mi chiami pure..".
La simpatica. Son davanti alla vetrina coi falli di gomma. Te piacerebbe eh, se ti chiedessi se me li posso provare tutti, eh?….tanto non ti ci porto a Timbuctu, a te. Che c’hai più tette di me, e non mi va, ecco.

Okay, sono sola. I falli di gomma sono li, mi fissano. Non so bene da dove, ma mi fissano. Sono tutti incurvati nella mia direzione. Qualche volto di graziose fanciulle ritratte con espressione di stupore e d’ammirazione, ne ignoro la funzione.
Una serie di falli doppi, alcuni semiparalleli e altri perpendicolari, hanno descrizioni bizzarre. Alla fine comprendo e esclamo spontaneamente…aaaaaaah, adesso ho capito.

La stronza mi sente e si affaccia all’uscio "….ha trovato quello giusto??".  Bastarda.

La mia pudicizia è comunque inferiore alla curiosità, e mi faccio una cultura. Le differenze di colori, anatomie, materiali, oltre all "una, due, tre velocità, o con una rotellina si modula (modula??) in base alle preferenze". C’è il modello "manuale", quello a batterie ricaricabili (un orgasmo che rispetta l’ambiente!) o quello, che però comporta delle complicanze, col filo. Naaaaaa….scherzava.
(…e io ero lì a pensare come diamine fai a non incastrarti col cavo…).
Sa poi, dipende dalle esigenze. C’è anche la sua custodia, vede? Molto discreta (da borsetta, insomma…) e protegge dalla polvere.

Io cretina abbozzo qualche richiesta tecnica. Il consumo. Il lavaggio. Se c’è la …garanzia.
Questa qui stasera a cena parlerà ai suoi quattro figli di quella deficiente bionda che è passata in negozio. Li sento ridere alle lacrime, la famiglia cesaroni dei me’ cojo…ehm.

Mi risponde, mi parla di "semplici batterie stilo….sa…quelle piccole… " e fa un gesto con le dita, a mimare l’altezza della batteria. Che dico, con tutti quei falli che ti guardano, ma ti sembra il caso??
Si pulisce con normale acqua e sapone, non detergenti aggressivi…. che c’avranno un PH anche i falli di gomma, e ci mancherebbe.
Sulla garanzia la carogna da il meglio di se per deridermi: " Beh…garantiamo anche in caso di uso non appropriato del prodotto….eheh….".

Ne scelgo uno indicando, assolutamente a caso, l’ampiezza della vetrina, mentre mi volto verso l’altra parete. Questa lo impacchetta, e io tiro fuori la carta di credito. Ma davanti a me appare la scena: Lui, il bel collega finalmente cede, e passa la notte a casa mia. Al mattino dopo, cerca le chiavi della macchina sul comodino e ci trova la ricevuta della carta…e legge "sexyshop le goduriose – transazione eseguita". naaa.
Pos?…..e quelli della banca sai che risate si faranno? naaaa.

Contanti.

Questa mi da pure due profilattici alla fragola e melone omaggio. Certo. Così vado all’upim e mentre cerco i cinque centesimi mi escono i due blister scivolando sul nastro trasportatore. E in coda c’è anche il bel collega, tutti gli impiegati della banca in pausa pranzo e, ovviamente, le due donne coi sacchi pieni dell’Upim appunto.

sa, non è per me, è per un’amica, sa, si sposa…è uno scherzo…..

-…non si preoccupi. dicono tutti così. …..buon divertimento.

Vacca.

 

Giovedì e venerdì

Giovedì e venerdì

Mi metto in macchina, stomaco vuoto che non mi riesce mai di pranzare, giovedì e venerdì.

Ho ancora la testa nelle mie scartoffie, mentre esco dal parcheggio dell’ufficio e mi incastro nella lunga fila camionistica della tangenziale. Mestre non sarebbe tale, senza l’incastro nella tangenziale. La radio con Fiorello, altra routine di questi due giorni a settimana, da anni. E canto, e rido, a prescindere. Il solito parcheggio, i soliti duecento metri a piedi, col portatile sulla spalla, che pesa. Le scale, di un palazzo storico di San Donà, e i suoni di pianoforti e chitarre che pigolano dalle altre stanze. Ogni tanto però ci sono più scalini, secondo me nascono dal nulla quando son più stanca. Arrivo, alzo le tapparelle, la mia aula se ne sta li ad aspettarmi. Accendo tutto, due note sul piano (come se pure lui dovesse accendersi), attacco cassa, mic, stereo, pc, e tiro fuori  i libri, i testi, le varie menate.

Il telefono sul leggio del piano, modalità "lezione", s’illuminerà se lui manda un sms. Una volta ne mandava mille, quando non c’era il gelo. Una volta li mandava anche l’architetto, prima di andarsene al creatore. E il cuore mi si stringe ancora, e ancora. Che le cose le capisco sempre troppo tardi.

Oggi sono sei allievi. La prima è una palermitana, che abitava a firenze, che adesso sta qui e viene a lezione da me. Ha la faccia pulita della brava mogliettina, vorrebbe fare pianobar. Ha per ora l’opinione buona, su di me, le sembro una pazza che la fa ridere a crepapelle. Ma deve aver capito che è una manesca tattica per farle fare ciò che voglio io. Vane arriva dopo, vane mi conosce. Si incastra con un pezzo di L’aura, proprio lei che ha la pecca dell’intonazione. Ci vado giù cattiva, me ne rendo conto, ma solo se si martella la testa riesce a non steccare ogni nota. Con lei è tutto più difficile, anche se ci mette il cuore.

E ci penso. Io che posso. Io che sto qui dietro al piano, e ho sta voce che esce perfetta, si siede precisa sul semitono giusto, sul comma giusto. Io, che butto via la dote di mammà. Michele, devo chiamare Michele.

Arriva la terza ora, entra la sedicenne, una voce dolce e piccola…e io a chiamarla Mariele Ventre. Si farà, anche lei, col tempo. Mi dice che fuori la porta han messo un cartello, "manicomio". Si immagina mi offenda. Macchè…rido. Saranno stati i miei colleghi. Quel "manicomio" è un vanto.

Arriva Roberta. Roberta quattro anni fa è entrata qui senza un sorriso. Mi uccideva farle lezione, io che condisco i miei discorsi con battutine idiote…e lei…niente. Manco un ghigno. Adesso sta lì a cantare, sculettando, ammiccando. Ho creato un mostro.

Monica, ecco, è Monica che mi fa pensare. Lei dice che è "premestruo". Macchè, è triste, triste dentro. Non so cosa diamine le pigli, e mi cruccio tanto di non riuscire a sbloccarla. Stiamo studiando un pezzo degli extreme, entrambe le voci, ma è fredda come il ghiaccio. Appena tocco la corda giusta, le cade qualche lacrima, proprio lei che è tutta d’un pezzo, la rocker della classe. Io ascolto, faccio la predica della brava maestra, consiglio, snocciolo retorica e grandi principi. So che mi ascoltano, manco fossi il loro guru, e allora ci provo, ad aiutarle. Senza la presunzione che alla fine serva.

Ormai è passata l’ora di cena, e io ancora qui dentro a cantare con Andrea. Sta facendo un progettone, un concerto di brani di De André, con tanto di fiati. Ma stasera tocca il rap, mi invento cose per fargli fare esercizi ritmici attraverso i pezzi. Ce lo studiamo insieme, dopo un po’ vien così male che cambio ritmo e cantiamo frankie Hi Energi modello valzer. E’ un raggio di sole a fine giornata, il mio Andrea, son anni che arriva trovandomi uno straccio…e ridiamo come due pirla per metà lezione.

Esco nella nebbia. Mio figlio mi ha chiamato mezzora fa, dice che mi prepara la cena, e che mi vuole tanto bene. Com’è difficile credergli, ora. Accendo la macchina, e chiudo la parentesi fatta di note, di vocalizzi, di spiegazioni su diaframma, glottide, intervalli e storia della musica per aneddoti. Sono di nuovo alla mia vita.

Mi chiedo chi me lo fa fare. Decido che domattina lo scriverò sul blog. Che è una parte del mio quotidiano di cui non parlo mai con nessuno. Dico sempre che no, non mi piace insegnare. Mentre invece, son piena di allievi, che non mi mollano da anni. E io mi sento sempre un po’ mamma, anche se più di qualcuno ha diec’anni almeno più di me. Penso a tutti i volti, le storie, le crisi passate, di ognuno di quelli che son passati nelle mie classi. Il rapporto stretto che hai, facendo lezione uno alla volta, un’ora di full immersion e poi sconosciuti, fino alla prossima volta. E penso a quante volte mi han presa troppo sul serio. Quella volta che mi ha detto "ho mollato il moroso, non viviamo più insieme" "perchè mai??" "mi hai detto che dovevo essere più blue. adesso sono blue." O un’altra in cui si è ascoltato tutta la notte un cinque quarti sul walkman per poterlo suonare bene. E adesso non riusciva nemmeno a suonare più una marcetta, in quattro.

Mi chiedo che impressione farò a tutti loro. Mi chiedo perchè non ho chiamato Michele. Perchè ignoro che son mesi che mi insegue, ma io non ho mai trovato tempo per provare. Dobbiamo diventare gli eurithmics del jazz, mi ha detto. O forse, i Jalisse. Domani vado?..
Che vita che ho. Si apre una porta, si richiude, un momento sono un tecnico, dopo un’ora sono la prof. Adesso vado a fare la mamma, finchè si addormenterà il pupo e tirerò le somme.

Confusa?…no, solo stanca. Ho scelto una vita complicata.

Mi arriva un sms, mentre attraverso di nuovo la tangenziale. Monica mi chiede scusa… che secondo lei ho una classe di matti, ma daltronde son più matta di tutti. Secondo lei son sempre allegra e sorridente (aaaaaaaaaaaa si, come non esser d’accordo!) e le dispiace avermi rotto oggi.

Rotto. Macchè. Sono il mio caricabatterie d’autostima. Mi sento…utile.

Ora vado, è venerdì, devo tornare lì, ad accendere il pianoforte. C’è eli, che non molla un compagno stronzo, e non canterà mai bene finchè non si mette il cuore in modo Happyness. E poi ci sono gli altri, le loro storie, le loro voci.

E dopo, dopo passo da Michele. Promesso.

 

Il corpo delle donne.02

Il corpo delle donne.02

Le nostre cose.

Capitemi, lo so che non è più politically correct, che le donne del 2000 non hanno più "quel" problema mensile. In quei giorni ti cotoni i capelli e giochi a far la tigre sul letto. In quei giorni ti lanci col paracadute. In quei giorni una o due pastiglie e vai a correre nel parco col cane (un setter, logically), saltando palizzate dell’olio cuore molleggiando su di un solo alluce.

Bei tempi quando, rantolando sul banco di scuola, dicevi alla prof di biologia che dovevi chiamare a casa. Che non ho capito, al liceo c’era il boom dei crampi mestruali, andava di modissima uscire da scuola emaciata, lanciando sguardi di superiorità ai maschi della classe. C’era quasi un vanto all’andare al bagno con quelle bustine colorate (manco fosse oggetto di tendenza) con dei materassi ripiegati… Eh si, che l’ultrasottile aveva uno spessore di centimetri 10 almeno. Aprivi la bustina, e come un paracadute si apriva di botto.
Per gli uomini che non comprendono: avete presente gli scivoli gonfiabili d’emergenza degli aerei? Ecco, uguale. Sto assorbente ti si apriva in mano, gonfiandosi fino a riempire interamente la volumetria del bagno. Indossandolo, camminavi come un deficiente.
E ti guardavi riflessa ovunque, specchi, vetrine, quando non ti vedeva nessuno…. che quel "rigonfiamento" perfetto non si notasse troppo.

E si muoveva, si spostava, si scollava, di continuo. Chi ha inventato le "ali" (ah uomini…comprendo che non comprendiate..) ha ricevuto un premio "mutanda pulita" dell’anno.

Di mio, ringrazio l’inventore del tampax, risolutore per tutte noi che ci lanciamo mensilmente dal paracadute in quei giorni. Ringrazio il cielo di averlo scoperto già adolescente, mi son risparmiata anni di imbarazzi e maglioni alle ginocchia. Che il tampax, che forte, ha anche le istruzioni d’uso. Come i profilattici. E questo lo rende erotico.
Poi sta ovunque, è discreto e non ha bisogno dell’apposito sacchettino da riporre dopo l’uso nell’apposito cestino. E puoi andare al mare. E puoi metterti il jeans aderente. E puoi "dimenticarti di averlo addosso", così dopo 12 ore o crepi o ti viene un mal di testa fotonico (e poi crepi).

 

Mestruazioni, che, dico, un nome un po’ più simpatico non gli si poteva dare.
Che noi non diciamo mai "amore, non dormo da te stasera, sai, ho le MEEESTRUAZIOOOOOONIIII". Gli diciamo "sai sono un po’ stanca.." oppure "ho i crampi alla pancia", "sai, sono indisposta…".
Di solito ci chiedono, da veri uomini, se abbiamo il cagotto. Andiamo bene. Sai, ho il ciclo, ho le mie cose, eheh non sono incinta questo mese, sai i miei problemi mensili….macchè. Non capisce. E vuol trombare comunque.

Come non capisce che, se stasera piangiamo disperate e siamo tristi è depresse, è perchè ci addentriamo nella fase premestruo. Ovvero, il periodo che precede il ciclo. Periodo di due giorni in cui il mondo obiettivamente ci odia, tutti sono bruti e cativi, e noi siamo brute e grasse… e in effetti, siamo gonfie da morire. Vacca miseria.
Mai, dico, mai discutere con una donna nel bel mezzo di una sindrome premestruale.
Che peraltro domattina negherà tutto.
L’unica cosa concessa è trombarsela, avete ragione, anche perchè ci sarà il clinico stop per cinque giorni.

Che poi, non è detto. Ci son uomini che se ne sbattono, che non gli da fastidio, anzi, si sentono pure molto trendy, e anche in quei giorni…giù bombe. Manco in quei giorni possiamo marcar visita, vacca miseria.

Comunque, appurata tutta questa serie di cose, ecco il consiglio: la vostra donna ha (se siete stati attenti almeno…) un 5-7 giorni con sta noia addosso, ed è abituata (come siamo tutte) a non rompersi troppo le balle. Ma il primo giorno, ecco, il primo giorno lasciatela soffrire in pace. Tisanina calda, copertina sulla pancia e filmetto sul divano. Non rompete i maroni col paracadute.
Fate il conto: 21 free, fino al 28 niet. Ocio di non aver donne che fan casino con la pillola (ehm) e vi sfasano le settimane. In linea di massima, la sindrome premes. è indicativa: due giorni e cade.

E non chiedeteci più cosa vuol dire "ob" sulla lista della spesa.

Buone mestruazioni a tutte…

il corpo delle donne.01

il corpo delle donne.01

Iniziamo un viaggio esssstremo alla conosssiensa del mondo delle donne.

Stupiti, di vedere una crinierona come immagine?….ebbene, il segreto sta tutto li.

Potete picchiarci, potete insultarci, tradirci, violentarci. Ma c’è una cosa, una cosa sola che davvero ci uccide: non toccateci i capelli.

Io stavo per uccidere Franco (il mio coiffeur) per aver tagliato non cinque, bensì OTTO centimetri i miei radiosi e lunghissimi fili dorati. E fan culo se "ne avevan bisogno". E’ come se sparassi a mio marito, dicendo poi "ne aveva bisogno". Anche se indubbio, mi assolverebbero di brutto.

Pensate a quando litigano due uomini: si prendono a cazzotti, a sprangate sulla schiena, si insultano.
Ora pensate a due donne che si picchiano, tipo lotta nel fango: si prendono per i capelli. Se li tirano, di brutto, con cattiveria. Eh si. Le donne, fra loro, sanno bene qual’è il punto debole.

Ci ferite? E noi ci tagliamo i capelli. Cambiamo colore, li scaliamo, ci facciamo le meches o, se non c’è tempo, arricciamo/stiriamo il tutto. Che tanto non ve ne accorgete lo stesso.
Vogliamo lasciarvi, e cambiare vita? Idem. Prima cambiamo taglio, se poi ci sta bene tagliamo anche voi. Dalla nostra vita.

Siamo depresse? Non ci pettiniamo. Dobbiamo abbruttirci fisse, col capello floscio alla morticia, bello unto, e dimostrare al mondo di quanto stiamo male dentro. E voi, invece che consolarci, volete fare sesso.

Io poi, se sono in crisi mi faccio uno shampoo. Se sono stressata, stanca, sfibrata, ideale è un bell’impacco col balsamo. Oro se associato ad un bagno caldo/doccia bollente, con estirpazione totale di qualsivoglia pelo. Che la guerra al pelo è cosa seria.
Ma avete la vaga idea di quante volte la vostra donna vi abbia detto di no perchè, per potersi fare una ceretta decente, son due mesi che si fa crescere la foresta boreale sulle gambe? Nono, mica son cazzate. Ammettetelo donne. Solo il pensiero di lui che ti passa una mano fra le cosce, pungendosi con una spazzola di peli (belli irti, chiaro, li spuntiamo ogni mezzo millimetro di crescita..), ci fa crollare la libido.

La gamba poi è un caso. E la zona "bikini"? No, parliamone. Che c’è ancora qualche pirla che ti osserva e fa battute sul fatto che tu sia bionda o mora naturale. Mentre te sei nell’eterno dubbio di approvare un taglio da slippettino sexy che somigli il meno possibile ad una pornostar, scongiurando quella serie di brufoletti e peli incarniti che tale operazione comporta.
Mica semplice essere donna.

In sostanza: regola uno, se vuoi davvero farti odiare dalla tua donna, tagliale i capelli nel sonno.

Se vuoi conquistarla, invece, bando a fiori e cioccolatini. Una confezione di olio di semi di lino, e lei (depilazione permettendo) sarà tua.
E non dirle mai, mai, mai, "sei morbida come un peluches". Tu non sai perchè, ma lei ti picchierà.

Vado a farmi uno shampoo.

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Dopo una trentina d’anni di riflessioni, ero giunta alla conclusione di volere lui. Ah si. L’uomo ideale.

 

L’uomo del catasto.

 

Un omino belloccio, buono come un setter, non eccessivamente brillante, possibilmente timido, amante (che ne so) del modellismo, che ne suppone capacità di bricolage notevoli, capace di passare le ore ad aggiustare paralumi, rubinetti, ganci delle tende …. che è certificato dall’università di Oxford, quando rompi un gancio della tenda, sempre poco prima di una cena con i suoceri, con il drappeggio che penzola penosamente… rischi un attacco d’ansia fulminante. Cerchi anche di arginare l’emergenza con ago e filo, graffettatrice, mastice da canotto, ficus beniamino altezza soffitto…ma non c’è nulla da fare, devi smontare tutto. E li, li si che l’uomo del catasto è quello della vita.

 

Tutta la settimana similelegante, poi la domenica mattina è in tuta. Lava la macchina, per due ore. Con la pelle di daino lustra la carrozzeria, ci mette il profumino alla vaniglia, e al pomeriggio ti porta a spasso per la fiera dei fiori, che ne so. E tu lo ricopri di geranei e alberi di limone, mentre lui sorride felice.

 

"si cara, hai ragione cara, come vuoi tu cara"…ti porta le borse della spesa (naaaaa…fàmo meglio, la spesa la fa lui direttamente…), cucina per te, segue il pupo giocando con lui e costruendogli aquiloni. E la sera ti massaggia i piedi mentre guardi House.

 

Certo, ogni tanto andrai alla convention nazionale dei trenini elettrici, ma via, è un dettaglio sopportabile.

 

 

Bon. Ne ho trovato uno.

Belloccio è belloccio, timido e buono come il pane. Mi guarda e sospira. Vacca boia, sospira e basta. Mentre parlo con gli altri, gli occhi gli brillano, ammirati. Ah si. Si fa pure menare senza proferir parola da mio figlio. Nemmeno cerca di sfiorarmi, sono una santa da rispettare, pensa. Sta ore ad ascoltarmi, chiedendosi "qual’è il segreto della flauta?..".

Oppercarità.

 

Ci ho pensato ore…. ed ho trovato l’aggettivo giusto: fonfo.

 

Si, fonfo. Una torta insipida, un sufflè che non lievita, una gomma masticata da tre ore. Una twingo color senape. Una trota salmonata. Un croissant confezionato. Una maglietta comprata dai cinesi dopo il primo lavaggio.

 

Okay, torno al punto di prima: voglio un uomo intelligente, passionale, fedele, innamorato.

 

D’accordo, mi basta fedele.

 

Capito. Mi compro un setter.

 

Il giorno più lungo

Il giorno più lungo

…nulla di drammatico.

Solo la lunga corsa, dal marasma della mia scrivania, a quella del pianoforte della mia aula.
Partendo dall’impresa titanica di vestire, colazionare, lavadentare e sbarcare al prescuola il pupo entro un orario umano ("si però mi accompagni fino al banco prima, e bacino anche, e non fare tardi e comportati bene", lui dice a me..), scongiurando il fato di non aver scordato buoni pasto, piatti e bicchieri, e firme sull’avviso… e rassegnandosi che nemmeno oggi mi sarò ricordata un boia di yogurt per me. Un caffè seduta già in ufficio, carte che arrivano, urgenze urgenze urgenze…e il collo a molla ad annuire, il polso che mima la firma  anche senza penna. Un panino mentre guido, e il trasbordo a scuola. Arrivano le allieve, una per ora, riassunto di vita, gorgheggi, pianificazione del programma di quest’anno… ingoiando qualche "profff!! facciamo un bel pezzo di Anna Tatangelo, che dici?" che meriterebbe una bastonata.

E poi arriva Andrea. Sisi, il mitico Andrea. Che non è diverso dalle altre, è solo che arriva alla fine. Ed è un omone simpatico, ottimista, che se non fosse per un velo palatino indomabile, sarebbe perfetto. Finito l’ultimo esercizio, facendolo rassegnare al rap che dovrà portarmi la prossima settimana come studio, chiudo le tapparelle, stacco i cavi, chiudo a chiave le porte.

La mia grigia mi aspetta silenziosa, paziente, piano piano riscalda l’aria che stasera è davvero gelida. Bside per radio, la stanchezza che arriva. I pensieri che ti cadono sul collo, mannaia, secca.

E’ la fine di un giorno lungo, sono le dieci di sera. Venti chilometri a mestre. E la buonanotte me la da il maresciallo, ha bisogno (a quest’ora?) di delucidazioni sulla solita questione. Rimetto in moto lo stand-by della mia vita privata, ricomincio la solita telecronaca, riempio i dubbi del magistrato.  E una parola sola, buttata li tra le mie, mezze di sfogo, mezze di rabbia, e un terzo mezzo, eh si, di stanca tristezza.

– Signora, arriveremo alla fine di sta storia, vedrà. Il magistrato sta seguendo tutto. Ci creda. Nel nostro piccolo, vi difendiamo noi.

E come dice Cla, dopo il periodo nero c’è il premio, e il mio sarà gigantesco.

A casa Gabry mi abbraccia, e finisce di leggere il libretto….che sembra Gassman. E ha preso una nota con tutta la classe….ma l’ha scritta benissimo. E’ diventato bravissimo. E io che non ci credevo mica.

 

Okay. Lunedì son 33. Prometto che non mi crocifiggeranno più così.

 

l’ira

l’ira

Ira.

Stomaco che si torce, bile che sale, ostruisce i pensieri, inacidisce la bocca, le parole, i pensieri.

E’ veleno, puro incontrollabile arsenico che come nebbia grigia rende cianotiche le sensazioni.

Accade nella giornata più normale. Non c’è premeditazione, l’ira ti prende, cattura, è una trappola aperta davanti al tuo cammino.
Eccola lì, piazzata come tigre attenta ad aggredirti, attendendo il momento propizio per piantarti le unghie addosso. Attende nella tua auto, mentre attraversi la città, ed ogni curva, ogni auto che incroci e affianchi lei soffia sul tuo collo. Alimenta la musica nella tua radio, ti scarica adrenalina nelle vene. Si accoppia con la caffeina del caffè, al bar. Sa bruciarti le labbra, nascosta nel ripieno innoquo di una briosce troppo calda.

Il suo spettro nascosto nelle mail, nelle brutte notizie, nel non accettare la delusione che forse…quella casella è vuota.

Ti guardi dentro, ti spaventi. L’insoddisfazione ti lacera, come acido distrugge la tua autostima, il controllo. Il tuo controllo.
Distratto lavori, insisti su quella strada che non senti tua, oppresso da quelli intorno, quelli che ti pestano i piedi. Rispetto, ti ripeti, voglio rispetto.

La vedi, mentre sei in coda dal capo. Arriva con un pantalone troppo stretto, la caviglia che balla sicura in tacchi appuntiti, lo sguardo stronzo dietro ai rayban. Nemmeno ti guarda. E tu vorresti fotterla, fotterla, fotterla. Strapparle quel sorriso superiore, farla sentire come lei fa sentire te, sentirla godere mentre le ridi in faccia. E vederla scappar via, poi, raccogliendo i suoi stracci, e scampoli di orgoglio. Quello che lei, con quei tacchi, straccia ogni giorno.

La tigre paziente si liscia il pelo, attende.

Sai innervosirti per una pausa pranzo perduta, tu li, di fronte al pc con un panino stantio, un’unghiata della tigre e via, la camicia non è più candida. E li sale, la rabbia. La reprimi, la soffochi. Asciughi malamente, tamponi la macchia, con mani che tremano. Imprechi, sottovoce, e infine ridacchi, massì.

Esci, sei nel parcheggio. E’ quello del commerciale, sicuro, che aprendo la portiera della sua auto ha graffiato il fianco della tua. L’ira alberga sempre nella carrozzeria dell’auto.

Eccoti. A casa. Il tuo focolare domestico. Sotto la doccia, troppo caldo-troppo freddo. Ti tagli cercando di farti una barba rabbiosa, il sapone brucia, il respiro alto rimbalza nello sterno. Ci provi, a stare calmo.

E ci provi, a prepararti la cena. Che lei non c’è-non c’è più-non c’è mai stata. Colpa tua, colpa sua, colpa di un’altro, di un’altra. Di un destino, del suo essere troppo bella, di esser stato tu troppo idiota, a perderla. L’orgoglio batte ancora cassa, mentre tu ti vuoi dar ragioni, cazzo di ragioni. E certo, bruci tutto. L’olio, la carne, il pane bruciato invade la casa, e la tigre ti assale. Getti tutto, gridi. Lanci tutto in aria, l’ira si impossessa di te, e devi distruggere, distruggere, tutto, ogni cosa. Mobili, bicchieri, libri, telefoni. Cadi, cadi in un vortice, non sai aggrapparti al controllo. Parole come pugnali trafiggono l’orgoglio, devi rompere, rompere qualsiasi cosa. E sai solo tirar fuori il peggio, e ancora di più, che non hai più bestemmie che dissetino la tua rabbia. Fino a che non distruggerai i vetri, i sogni, i ricordi, fino a che….ti autodistruggerai.

E crollerai, li, in terra, abbracciandoti le ginocchia, impaurito da te stesso, i singhiozzi a far sussultare lo stomaco.

Il graffio dell’ira scolpito nell’anima.

come sopravvivere al convegno

come sopravvivere al convegno

E certo che capita anche qui.

La sindrome da Iso9001 attacca prima o poi tutti, anche i comunali.

Un giorno arriva il Direttore (ma quant’è bello il Direttore…) e ci degna di uno sguardo, una grande riunione. Tutti bravi scolaretti, seduti in cerchio, e davanti lui. Anzi, Lui.
Ci parla, ci dice, ci spiega. Ci vuole un quarto d’ora per comprenderne il linguaggio, i previdenti hanno scaricato sul palmare un dizionario comunale-direttore per riprendersi dallo shock, che noi senza la eRRe mestrina o la terminologia da bàcaro ci gira la testa.

Knowhow, ha detto. Dev’essere quel cane a pelo lungo, quello che mangiano in cina.
Misunderstanding, ha detto. Ah si, quel pezzo funky dell’Aguilera.
Ustrega, conditio sine qua. Io so solo ite missa est, mi alzo e me ne vado.
La certificazione di qualità. E’ quella che danno ai peri, se son maturi. Ci mettono un bollino Chiquita allora. L’hanno fatta anche da mia cognata, gli facevano fare il conto delle rondelle di ferro che facevano ogni giorno. Forse a noi conteranno il numero dei caffé presi alla macchinetta.

Dobbiamo recuperare la vostra professionalità. Ah, questa la capiscono tutti: vuol dire "adesso ve la mettiamo nel culo a tutti". Socrate, o Platone, insomma, uno di quei scrittori russi li.

Il giorno dopo, tutti li, nella sala congressi. Modello gita scolastica, tutti come pecoroni arrivano a sedersi…nell’ultima fila. Tutto vuoto, ma ultime due file affollatissime.
Ci si passa caramelle, gazzette, ipod, si attiva il bluetooth per scambiarsi video porno e si va di foto di gruppo. Che andrà spalmata sul desktop domattina.
I più esperti in imbosco, previo info sul colore delle poltroncine, si sono vestiti in tinta. Camaleontizzati.

Poi arriva lui. Cioè, Lui. Il bellissimo Direttore.

Non è pelato, è illuminato dal cielo. Nemmeno il suo completo di lino si permette di spiegazzarsi su di lui. Ha una scarpa lucida e un calzino…il calzino in tinta col pantalone…che non scende. Mai. Sempre perfettamente su, il rocco siffredi dei calzini.

Prende il microfono. Scene di panico in platea, gonne inguinali in prima fila appaiono d’incanto, visi cianotici delle segretarie del commerciale intente a trattenere la cinta, alcune vengono soccorse dai paramedici presenti. Lancio di reggiseni, tanga e gambaletti color carne bloccati da energumeni della security.

Torna la calma.
Il Direttore prende la parola. Il microfono si rizza (tutto, di fronte al Direttore, si rizza).
Con l’occhio dal basso all’alto scruta i dipendenti, che intimoriti scivolano tra gli intersizi delle coste del velluto rosso delle poltroncine. Per alcuni sono ancora in corso le ricerche per il ritrovamento. Introduce lui, l’oratore. Che è ora, dopo sarà un dopatore, prima era un eratore.

(è difficile, lo so, riprovateci,  rileggetela. su, che ci arrivate.)

Inizia il convegno. L’oratore parla, lento, leeeento…leeee…yaaaaaaaaaaaawwwwwwwwwnnnnnn……

…………zzzzzzzzz…………

Sul megaschermo c’è, sempre, la presentazione in powerpoint. Si, perchè dicono serva a quello, non alle catene via mail sui dictat del dalai lama.
Le diapositive hanno sempre l’immagine stilizzata che trovi in automatico su word. I discorsi, astrattissimi, contemplano dati, percentuali, numeri. Il comunale riesce si e no a fare il conto di quanto toglie dalla chiavetta se si compra la Fiesta al posto dei Ringo.

E sul più bello, arriva Lei: la PIRAMIDE. (scene di panico, qualcuno urla, qualcuno piange, qualcuno chiama la moglie dicendole che comunque, l’ha sempre amata.)
Prima questo, per arrivare a quello, e poi a quello …. e ognuno del pubblico, a seconda del livello assegnato, stringe proporzionalmente le chiappe. Ecco, cos’è la piramide. Qualcosa che si INSINUA.
Torna alla mente la frase "….recuperare la vostra professionalità..".
Hostess preposte passano per le file distribuendo tubetti omaggio di vasellina.

Mancano pochi secondi ormai alle cinque. Si, finisce alle cinque. Ultimi flash colorati illuminano la platea, l’ultima diapositiva indica i numeri 5.10.15. Se lo mandi a cinque sarai sfortunato, a dieci tromberaicome un mandrillo, a quindici sarai sodomizzato dal direttore entro la prossima finanziaria.

Le luci si accendono. Colpi di tosse. Sempre, ci sono sempre i colpi di tosse.
Le cornee riempite di capillari rossi tradiscono i dormienti, le gote arrossate i dipendenti in fase di "gemellaggio" sotto le poltroncine; il direttore invece è lì, soddisfatto, lindo, speranzoso. Un fascio di luce dall’alto lo illumina, riflettendosi sulla pelata il riverbero acceca i dipendenti, che si prostrano chiedendo perdono dei loro peccati. La segretaria Bernardette Vianello prende nota di tre obiettivi, chiamati in codice "i tre segreti di Marghera". Diciamo tutti ascoltaci direttore.

-ascoltaci direttore.

(anche questa è difficile, e pure abbastanza bruttina, conveniamone insieme).

Tornando a casa, il comunale racconterà a moglie e figli del lungo e impegnativo convegno, dei temi trattati e delle importanti decisioni prese per il riassetto della sua direzione, di cui lui si è fatto promotore. Si prevede anche una promozione, forse assumeranno anche il cugino arturo, vedrai, come mio uscere personale. E alfonso come autista. Sarà tutto diverso. Applauso della famiglia, lacrime di commozione della nonna, principio di coro da stadio dei due figli.

Il giorno dopo, tutti li, davanti al pc, a fare il solitario con le carte. Cambia un cazzo, cambia.