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L’oboe esiste.

L’oboe esiste.

Flauta per il sociale: inauguro oggi l’iniziativa “Conosci sto piffero”, ovvero farò una bella carrellata di strumenti musicali (a fiato, per ora) e loro suonatori (“buonanotte ai”).

Vedo una domanda rimbalzare nelle vostre menti: perché?
Molto semplice: perché il piffero è quello delle medie. Il flauto è solo quello traverso (l’altro è flauto dolce), il clarinetto e l’oboe non sono la stessa cosa, il corno inglese e quello francese non sono parenti, e soprattutto se lei suona il piano non è detto che lui la tromba.
Fine preambolo. Non parliamone più.
Mi avvarrò di amici orchestrali oltre ad attingere ai miei trascorsi e a milioni di luoghi comuni, tipo Brescia. Potevo dire Mestre, ma Mestre non fa comune.

Si diceva: l’oboe.

L’oboe NON è un clarinetto. Primo enunciato.

E’ la spalla dei fiati (ovvero, è il rappresentante unico, il boss, l’amministratore delegato) e sta a fianco del primo flauto. Il suo leggio lo becchi subito, ha la macchinetta (l’intonatore, visto che dà il La a tutta l’orchestra) e una scatolina cilindrica dove immerge l’ancia per inumidirla. Quindi: l’oboista ha un saaaaacco di saliva e un saaaaacco di vecchi contenitori di pellicole.

O meglio: i portarullini sono vintage, quindi stanno tornando di moda alla grande, ma sono stronzi perché ti si aprono in borsa allagando tutto. Le alternative: contenitori per le urine, provette, tubi Falcon (chicche per gli scienziati), contenitori delle marmellatine. Tanto lo so che state ancora pensando “CONTENITORI PER LE URINE??”.

Sono amabilmente chiamati Geppetti perché si fanno le ance da soli. (Anche per altro, ma no, vabbé, son cattiverie).
La leggenda dice che passino ore ad intagliare lamelle di canna (non quella canna, su, dai, fate i bravi), affilandole col coltellino, legandole a due a due attorcigliandogli un filo colorato, ed inserendole in scatoline di cuoio, tipo i proiettili in Roger Rabbit.

Per costruirle ci vuole del tempo, molto tempo. Molti oboisti comprano i pezzi di canna di bambù grezza da sagomare o gìà sagomata. Questa deve essere piegata e legata al cannello (quel supporto cilindrico foderato di sughero che viene inserito nell’oboe). Tra bestemmie varie, questo richiede una ventina di minuti per ancia. Lo step successivo, senza dilungarmi troppo, è aprire l’ancia e cominciare a grattarla e levigarla con il coltello. Questo passaggio può richiedere giorni perché, se si vuole ottenere una buona ancia, ci sono dei tempi di “riposo” del legno.
Non è dato sapere se un’ancia si sia mai trasformata in un bambino vero.

Ogni ancia può uscirti bene come meno bene, può essere adatta al solo della vita, all’anatra di Prokofiev o al solo di Pulcinella di Stravinskij, o a cacciare i piccioni dal balcone studiando lo staccato.
La mia amica Elena dice che devono starti addosso come scarpe su misura. Scarpe piene di segatura.

Prima di inserire l’ancia nello strumento, frullano. Ovvero: fanno PEEEEEEE. Serve a capire se l’ancia è umida o meno. Non so se sia vero, non ho mai avuto un moroso oboista.

Ecco. Le buone notizie finiscono qui. Il resto, ve lo anticipo con infografica:

L’oboe è fottutamente #maiunagioia.

Ha un suono figo, è nasale (un po’ come il clarinNO NON E’ UN CLARINETTO!) ma molto più elegante, femminile, struggente.
Si mescola coi timbri degli altri strumenti in modo sublime, talmente sublime che se lo magnano e non lo si riconosce più. A meno che non ci sia quello: lo SQUAK. E’ quel gracchio (detto in termine tecnico scrocco) che si ottiene calpestando per sbaglio un’anatra. E’ inversamente proporzionale alle ore di note lunghe studiate dallo strumentista, ma a volte arriva, bastardo, nel bel mezzo dell’assolo. E i colleghi, regolarmente, si voltano verso il colpevole scuotendo il capo con riprovazione.
L’oboista cercherà di dare la colpa all’ancia fatta male (quindi è colpa sua) o soffiando sulla meccanica mimando invisibili bolle d’aria che chiudono i tasti (certo, certo).

Come dice Elena: “Noi non scrocchiamo mai. Essendo l’oboe uno strumento semiautomatico, a volte la diteggiatura non è comoda come si vorrebbe, per cui in alcuni passaggi, le dita devono muoversi veloci e in posizioni anguste ed ecco che viene fuori lo scrocco”. Semiautomatico, dice. Pure noi flauti siamo semiautomatici, ma non scrocchiamo mai. Mai, eh? Mai mai mai.

Ed ora, sveliamo una grande verità: perché è proprio l’oboe a dare il LA all’orchestra?

Perché gli consentono di fare una nota all’inizio, per contratto. Poi gli si suona sopra. Tutti. E’ il bullismo orchestrale, baby. E comunque, se non gliela lasciassero fare da solo, poraccio, non si sentirebbe mai per tutto il concerto. Pucci.

Infine: l’oboe è bello, ma c’è sempre uno più bello di lui, per l’apoteosi del #maiunagioia di cui sopra. C’è lui, il corno inglese. E’ un oboe ma più figo, più grande, con qualche cupola sulla canna manco fosse una chiesa ortodossa. E fa i soli, da figo. L’oboe il lavoro sporco, l’inglese lo snob. E’ l’evoluzione, come i pokemon.
E non è il corno francese. Quello è n’altra roba. Non c’entra un corno.

Concludendo: se vedi un oboista, digli “Ma ciao! Ma suoni L’OBOE!” ed abbraccialo.

Perché instintivamente risponderà No è un obOH WAIT, hai detto proprio oboe!” e scoppierà in un pianto dirotto.

E non dire altro. Non dire “Mio zio suonava il clarinetto”, non dire “Dai fammi la papera!” e nemmeno “Abbellooo, anche oggi ti sei fatto le canne!”.

Chiedigli invece se ha un’ancia buona, oggi. Digli che domani sarà migliore. Digli che c’è sempre, in fondo al tunnel, un’ancia migliore. Diglielo.

Ovviamente, parlandogli sopra.

(Grazie alla mia amichetta Elena Giusto, oboista, per aver verificato che tutto ciò risponde a verità, il #maiunagioia in particolar modo..)