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I sogni degli altri

I sogni degli altri

Gira il cacciavite tra le mani da impiegato. L’ennesimo mobile svedese da far crescere in casa, come frammento del puzzle familiare. Ma niente, non va. Le cerniere non coincidono. Non è calmo, per niente. Non gli viene affatto da ridere. Ha quarant’anni, è seduto in terra e sta montando un maledetto mobile, maledetto, e lo grida, maledetto, che la moglie e i ragazzi son fuori, maledetto.

Lancia tutto in terra, il cacciavite rotola impazzito fino al tappeto, il mobile ondeggia.  Cazzo ci faccio qui.

Si alza, esce. Boh. Esce perché gli va di uscire. Nessuno gli ha detto che deve uscire. Ma esce, come d’istinto s’esce da un incendio di pensieri.

Scappa nella gente del pomeriggio, invisibile sotto una coperta d’incosciente presa di coscienza. Cosa cazzo. Il mobile, lo vuole lei il mobile, e l’amo, e sono stronzo a pensarlo, la famiglia, eccetera. Come se amare una donna significhi che devi farci famiglia, come lei desidera. Ecco, lei desidera. Che fosse per me, fosse per me (ma la amo, eh, la amo) fosse per me (ma cazzo dici!) fosse per me stavamo insieme mille anni senza costruire un cazzo, vivendo tenendoci la mano (sei un immaturo sei, un immaturo) e vivendo senza un legame, stando insieme solo quando ci va (ma allora non la ami più) ma no, cosa c’entra.

Che poi, c’è anche il lavoro. Manco si ricorda cosa gli piaceva fare. Ah sì, voleva suonare il basso. Ne ha pure uno, che suona come un barbone in camera, e ogni volta che suona lei lo chiama per sistemare quella cosa in cucina, o devono andare dai suoi, o cazzo ne so. (Ma non è colpa sua).

Poi è arrivata l’occasione. Suo fratello, davanti al caffé del dopopranzo, sopra la tovaglia con le fragole, lo ha coinvolto, diamine, è un sogno, un’agenzia tutta nostra. Anni di sacrifici, essì, ma è giusto per il nostro sogno, poi ci piacciono le macchine, mettiamo su un’agenzia e ci lavora la Cristina (Dio che bella la Cristina). E ha realizzato il sogno, ha la casa e la moglie che ama, e l’agenzia, il lavoro che ha sognato eccetera.

I sogni degli altri. Come diamine s’è incagliata questa mia vita nei sogni altrui, passati come fossero i miei.

Incrocia la Sandra, coi figli e le borse della spesa. (Penserà sono un pazzo, mi invento una scusa) Ah ciao, eh sì, devo andare dal ferramenta, sai, la Ale ha preso un mobile… (boh, la Sandra forse la beve). Un metro, gira l’angolo, salvo, dalle spiegazioni per la marea di ansia.
Guarda la gente, intorno, quasi fosse una telecamera di sorveglianza: si gira, memorizza le azioni, va oltre, senza esser notato. Li fissa, li giudica, e li giudica contenti. (cosa cazzo mi manca!). Loro non vivono i sogni degli altri. Loro hanno i loro, magari nemmeno realizzati, ma almeno ne hanno, hanno qualcosa su cui lamentarsi.

Ecco appunto, che ti lamenti a fare? Hai tutto quello che.

La vetrina dell’agenzia, Cristina e le sue gambe accavallate che dondolano a tempo, le dita che saltellano sulla tastiera numerica, l’unghia azzurra a tener alzati due fogli del blocco.
“Vieni di là”, che ho bisogno.
Ho bisogno di quelle unghie che mi segnano la schiena, sotto la camicia, ho bisogno dei tuoi fianchi al mio ritmo, senza svestirti del tutto, senza doverti baciare, senza chiedere e spiegare. Trascinarti sopra le carte dei numeri, immergermi nei tuoi capelli e dimenticarmi del mondo. E morderti, strapparti di dosso il piacere, e proseguire oltre, senza fermarmi a darti fiato, per ritrovartelo ancora, di nuovo, spettinata e con il trucco che scivola nel rossore del tuo viso.

“Caramella?”
Eh, non posso, la Ale dice che la menta mi aumenta il reflusso. (Ah, seduttore nato, proprio). Esce dall’agenzia, prendendo un foglio qualsiasi, di nuovo vergognandosi di non aver motivazioni. Non ho sogni, non ho motivazioni, nemmeno sensi di colpa.

Riprende il cacciavite, riprova con la cerniera, ora chiude. E’ perfetto, non me lo sognavo nemmeno ci stesse giusto in fianco alla libreria. Non me lo sognavo, proprio.