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Arriva il giorno in cui ti volti e vedi lui, il tuo clone, molto più figo di te, essere un uomo.
E’ sempre lo stesso, gli stessi occhi azzurri e profondi, i capelli senza una volontà ordinata, il fisico slanciato e sbadato, il cuore immenso, delicato e tormentato, il carattere forte come il granito. Non più il tuo bambino, non più solo tuo figlio. Ti aggrappi al suo braccio, cerchi il suo conforto, ti aggrappi alla sua mano per attraversare, non più il contrario.

Non ci siamo mai allontanati.
Io ho vigilato su di lui e lui su di me, carezzando dolcemente i difetti l’uno dell’altro, coprendoci da grandinate di problemi, abbracciandoci e facendoci forti a turno attendendo che rischiarasse.
Ci siamo mandati al diavolo tante volte. Io di più, perché i genitori pensano sempre di aver ragioni migliori per perdere il controllo. Lui di meno, o almeno non sempre di fronte a me. Ma siamo sempre rimasti amici, famiglia, squadra.
E soprattutto, abbiamo vissuto un sacco di avventure. Abbiamo vissuto ben più del quotidiano. Abbiamo parlato di qualsiasi cosa, da ragazzi, da adulti, insegnandoci parti della nostra vita. Abbiamo volto lo sguardo l’uno verso l’altra senza doverci dire nulla. Abbiamo riso, santiddio quanto abbiamo riso, mille e mille volte. Ci siamo viziati di desideri, sogni, obiettivi, ci siamo presi cura l’uno dell’altro prevedendo le necessità dell’altro, in un equilibrio perfetto.
Abbiamo suonato insieme, in sintonia ancestrale.
Abbiamo cucinato l’uno per l’altro, abbiamo cucinato insieme.
Perché la cucina è come la musica, è un gioco di idee, incastri, rincorrersi e passarsi il cucchiaio. E far gustare tutto agli altri, che a noi piace un sacco già solo il prepararlo.

Stamattina è uscito prestissimo, con 19 anni nuovissimi, affrontando la sua vita così come l’ha voluta gestire, prendendosi responsabilità di azioni e decisioni, con equilibrio e lealtà.
Lealtà, come diamine avrà imparato ad essere leale in questo diamine di mondo. Lo guardo e non sento di aver alcun merito per quello che è, non sarei mai stata in grado di renderlo così.
E dicendomi “così” ho finito ogni aggettivo. Sono così grata di averlo come famiglia.
E’ la cosa più fottutamente bella che potesse mai accadermi.
Auguri Lele.

(Bus de la Genziana (BL) ramo a monte della Peppa)
Siae vs tecnologia, non ce la possiamo fare.

Siae vs tecnologia, non ce la possiamo fare.

Tredici. Di giugno. Non quel tredici lì, quello delle cassette, ma quello dei dischi, dei borderò, dell’Assemblea Siae. 
Ma sempre di suspence e di terrore per tutta la puntata si tratta.
La Vostra, qui, non è andata a Roma ma il resoconto può farlo, è necessario: la segue via streaming.

Eh, streaming. Fai presto a dire streaming. Dovevi passare il primo livello (‘a telefonata cor còre de ròma) nel quale dovevi comprendere le indicazioni del gioioso telefonista Siae per accedere alla votazione online. Quindi verificare la Pec gentilmente offerta da Siae, mandare documenti, attendere sms, prendere codici, bla bla, tutto traducendo dal prepotente accento romanesco che esce qua e là da un sottofondo che manco al mercato del pesce con le moeche in offerta.
La cosa commuovente: il telefonista che ti ringrazia. E tu sai che è sincero. Le bestemmie che si deve prendere quotidianamente appena pronuncia “La chiamo da parte di Siae….” le conosce solo lui.

Inizia l’assemblea, parla il Gran Mogol di Siae, Filippo Sugar (nessuna parentela con quello sul tetto che aspetta Lorella Cuccarini). Illustra la situazione attuale, dopo 5 anni di grandi innovazioni. Il portale autori, il borderò online, il deposito online, cosucce che chiesi a gran voce a suo tempo e che finalmente sono fruibili da tutti noi associati. Se funzionassero.
Poi Sophia, il cervellone che seziona tutta la musica ovunque e che ci succhia fuori i diritti che ci spettano. Uhm.
Poi altre cose (ma non essendo io un organo Siae, non sarò esaustiva) e la sensazione che “Evvai, abbiamo passato il gap. Siamo fichissimi, ora funzionerà tutto, viva l’innovazione! Vedi, vedi che la Flauta si lamentava tanto, eh, adesso di cosa ti lamenti, che funziona tutto? Eh? Eh?“.

Scherzi a parte, l’ottimismo prevale. Gli interventi dei rappresentanti delle liste sono dello stesso tenore, poche polemiche e molta voglia di fare.
“Dai, la sufficienza gliela diamo quest’anno, si è impegnato”.

E ora via, si vota! E quest’anno per la prima volta anche da remoto! Chi non può andare a Roma, chi non può delegare (delega notarile, mica due righe via fax) può fare da casa, come me, con la procedura che mi consente di far valere i miei miseri voti (sono in base al proprio “fatturato” Siae) ed assistere “come se fossi lì” all’assemblea.
Inizia. A Roma vanno tutti verso le postazioni coi tablet, ognuno col proprio badge con caricate eventuali deleghe. Io a casa attendo l’sms col codice per poter votare. Attendo. Attendo. Atten(okay, avete capito).

“Ehm, scusate, c’è un problema, nella scheda sui tablet manca una lista” “Dobbiamo rifare da capo”
(“ma la gente è fuori dalla sala, alcuni sono andati a casa” “ma fermateli alle porte” “richiamali” “hai il numero di telefono?” “no vabbè, che si fa?”)

I microfoni del palco sono aperti. Via streaming seguo impotente alla tragedia. Nel frattempo non han caricato nemmeno la delega del signor Cutugno Salvatore (…), diamine. Anche questa ci voleva. Fermi tutti. Chiama Esercito.

Passa mezz’ora. I commenti (e le telefonate a casa) risuonano nello streaming, inclusi suggerimenti inquietanti. “Beh, l’assemblea non è chiusa, quindi se sono andati a casa colpa loro, amen, andiamo avanti“. Sono basita.
Brusio in sala, polemiche, panico. Fermate le porte, chiudete le finestre, chiamate a casa, contiamoci, di chi è la colpa di tutto questo?
Il popolo dello streamNO COSI’ NON MI PIACE Gli associati che seguono la diretta comprendono che la colpa è della società incaricata del voto informatico, grazie alla soffiata di qualcuno che esclama “….otto mesi debbbando, in svizzera, sto cazzo, dovevamo annà proprio in svizzera!“. Okay, abbiamo capito.

Sugar prende la parola. E’ il giorno peggiore della sua vita. E’ presidente dimissionario, sperava di scamparla, finalmente, e invece. Chiede scusa, non è colpa mia, sono mortificato. Ti viene da abbracciarlo, lui e la sua camiciola bianca, che si erge sopra i mal consigli di chi vorrebbe in qualche modo “far lo stesso” “tenere un basso profilo”. Lo dice chiaro, Siae e quest’assemblea non meritano questo. Si rifà. Si riconvoca l’assemblea, si rifà la votazione.
S’alza forte l’urlo del malcontento. Non inquadrati gente che sventola deleghe da rifare, biglietti del treno da rimborsare, s’odono le voci dei noti della direzione che si chiariscono vicendevolmente le idee.
Il mio sms non è arrivato, ovviamente.

Termino lo streaming con la tristezza del volto del buon Sugar, che sperava che almeno questa andasse dritta. Rassegnato. Si cercherà una nuova data, una nuova sede, si chiederanno i danni alla società svizzera, si rifaranno deleghe, biglietti del treno, convocazioni, bla bla.
E’ chiaro, raga. La tecnologia ci è contro. A prescindere.
Ma noi musicisti lo diciamo da anni: meglio usare la matita che Finale craccato.
Facciamo ad alzata di mano, daje Fili’. Va bene uguale.

La cosa sbagliata

La cosa sbagliata

Ho messo in pausa.

Ho aperto quella parte buia ed arrabbiata, ho iniziato a guardare tutto, leggere tutto, rivivere e bruciare quanto potevo, tentando di accettare di dover convivere per sempre con molto altro.
Non è un cazzo facile.
Ogni minuto mi dico di star facendo una enorme cazzata, più grande di me. Era meglio prendere e starne lontana, lontanissima, dimenticando e basta, come quelle zuppe che si bevevano negli alberghi dell’Est, ci si diceva sempre di prendere col mestolo la minestra senza mescolare, per paura di ciò che poteva venir a galla.
Dio santo se ne vengono a galla, tante cose. E non puoi condividere, non puoi parlarne, perché ti senti noiosa da sola.

Eppure ce n’è una marea, di cose. Ci sono immagini che scorrono, parole e azioni che vorresti scacciare, e che invece senti che sono parte del tuo essere, tramandate da una stirpe stronza. C’è tutta una serie di sentimenti che arrivano, ti sconquassano, li affronti e dirimi, li superi ed archivi. Un respiro e niente, ne arriva un’altra sporta, e da capo.
E io con quella mania di voler essere capita e consolata, e vederne le ragioni ovunque, incastrate in un’infanzia senza bei ricordi, in un’adolescenza in cui l’unica gioia era scappare, ecco, io sto ancora a dirmi “Nessuno mi ascolta, nessuno capisce”. E’ che in effetti è così, chi cazzo vuoi che capisca. Sei uscita da lì, ma mica grazie a qualcuno, mo’ affronta questa merda e vedi di reagire, alla svelta.

Quando entro in quella casa, per quanto io stia cercando di render tutto diverso, ogni millimetro mi prende a schiaffi. Son schiaffi che colpiscono la carne viva, esattamente dov’erano arrivati la prima volta. Le porte, le porte le ricordo solo quando le sbattevo per andarmene via. E le finestre, le finestre.
Mi ripeto che faccio la cosa sbagliata, ah okay, l’ho già detto. Ma magari fa bene ripetermelo, e dirmi anche “non ce la faccio”, perché lo dico sempre, quando non riesco a risalire, ma poi esco.
Certo, servirebbe il Sandro che sta lì in silenzio ad aspettare che io prenda fiato. Oppure un integratore di quelli belli tosti. O concentrarmi sulla birra, all’uscita.
O magari, l’illusione che questo viaggio schifoso serva a qualche cosa.

Ecco. Secondo me tutta sta merda non mi serve a niente. Ma proprio a niente.
E allora, levigo i pavimenti, i mobili, tolgo la polvere e la rabbia, la cattiveria, l’odio. E in mezzo tolgo anche le cose belle, ed è forse il prezzo da pagare. Non riesco a sognare o programmare un cazzo, non mi viene nemmeno la stoica ironia. Non ho più voglia nemmeno di suonare.
Il dolore serve, dicono. Serve a far rinascere le cellule della felicità, dicono. E certe cose devi affrontarle, così dopo anvedi come stai meglio, dicono. In fondo ho preso una non-decisione, ho accettato il minor dei mali, ho abbracciato la resilienza, per pigrizia o per sopravvalutazione delle mie energie. Ho accettato la non-fuga, condita di numerosi “ma cosa cazzo stai facendo”, come se la mente dicesse una cosa e il corpo ne avesse proseguita un’altra, un automa masochista e incosciente. E senza una cazzo di luce alla fine del tunnel.

E quindi, quindi niente. Continuiamo sta cazzo di cosa. Tutta, completamente, sbagliata.

Non suono un corno

Non suono un corno

Iniziamo con l’enunciato “I cornisti hanno senso dell’humor quindi non mi toglieranno la vita nei commenti”.
Servirà un cazzo, lo so. Ma pazienza.

Si diceva: oggi parliamo del corno e i cornisti, quella triste categoria dei fiati che nasce e muore immersa in un mare di battute inutili.
E’ il corno in sé che fagocita nell’uomo medio (ma soprattutto in quello mignolo) l’allusione idiota tipo “allora tua moglie è cornuta ahahah” “ma allora non fai un corno tutto il giorno ahahahah” “ma quanti corni c’hai ahahahahah”. E niente, è un dato di fatto. Io, che suono il flauto, vivo quotidianamente le scemenze sul “quanti tipi di flauto suoni ahahaha” quindi niente, solidarietà. Fine.

Ma fosse solo questo. Povere stelle. Andiamo per gradi.

Il corno è un ottone, nel senso di strumento, non di pomolo della porta. E’ come una tromba lunghiiiiiiiiiiissssima ma attorcigliata stile girella Motta aggrovigliata, con alla fine una campana (quell’imbuto che sembra il centrotavola con la frutta dentro di casa Trump) grandissima. Ecco: la prima sfida del cornista (dopo quella contro le malelingue) è evitare che s’accrocchi la campana.
Ci riescono? No.
La campana del cornista chiama a se’ le ammaccature in modo direttamente proporzionale alle battute sul tradimento delle mogli.

Lo si suona con un’imboccatura. Sì, un aggeggio che è fatto tipo un cono dove ci suoni dentro e che finisce in un cilindro che poi metti dentro l’instrumento e ci soffi dentro e poi l’aria si espande nel corno e poi esce il suono e….
…..okay. Si chiama bocchino. Lo abbiamo detto. Bocchino. Sì, come quell’altra cosa, che palle che siete. Anni di lezioni concerto nelle scuole, anni di descrizione dello strumento agli alunni, anni da cintura nera di evitare di nominarlo col nome preciso. E niente.
E pensa che a volte i bocchini si smontano. E si fanno fare da altri (sempre meglio che comprarli fatti). E si tengono in tasca, per studiacchiare in macchina, in hotel, al parco. Spernacchiando per ore. Funziona così, poco da fare.
Per questo c’è un altissimo tasso di abbandono degli allievi di corno alle prime lezioni: “Prima devi allenarti a lungo solo col bocchino”.

Per non parlare del “devi farci dentro una pernacchia”. Poi dici che di storie d’amore con l’insegnante di piano è piena la letteratura, mentre i cornisti sono lì, onanisti, a far pernacchie. E’ che sulla tromba è figo, sul trombone poi… ma sul corno, sarà che L’IMBOCCATURA è più piccola e conica, niente, lo speeeeeet che ne esce sembra quello dei cuscini della ACME.

Ma questo è niente. La tragedia è un’altra. La tragedia sono gli armonici.

Nel corno ci son 4 tasti. Anzi no, leve. Anzi no, anche pistoni, dicono i viennesi. Vabbè, sempre 4 dita sono. Con quelle 4 dita si fanno fino a 5 ottave.
Ma la cosa più figa è che con la medesima combinazione di tasti puoi fare più note! bello eh! Dov’è la fregatura? …che non scegli tu che note fare.
Suoni, ed esce il primo armonico che gli pare.
Il corno è così, come una tastiera che ha il tasto con cui si suona il fa MA ANCHE il la MA ANCHE il do, eccetera. C’è un unico algoritmo affidabile per fare la nota corretta desiderata, si chiama culo.
Il culo ovviamente ci vede male, quindi funzionerà sempre:

1. a casa
2. durante il fortissimo dell’orchestra
3. prima e dopo il tuo assolo.

Si stravolge il concetto dello scrocco, perché in questo caso non si parla di “scrocco” per note sbagliate, ma di “oddio una nota giusta!”. E’ una prospettiva oggettiva.

Per non parlare di sta menata del trasporto… corno in fa, in re, in do, una dicitura simpatica sullo spartito e ‘sti poveracci non solo hanno sta scommessa sull’armonico giusto, gli si rovina la vita pure chiedendogli una prova infima di setticlavio avanzato. I compositori so’ bastardi coi corni.

Essendo animale da branco, il cornista viaggia in gruppi di 4: sviano così l’attenzione e nessuno capisce quale sia chi canna l’armonico. Sono furbissimi.

Non molti sanno che per ovviare alla sfiga, all’inizio del 700, i cornisti tenevano la mano destra sulla patta dei pantaloni. Visto che non era proprio elegante, si è scelto di adottare una tecnica differente, l’inserimento della mano direttamente dentro la campana. Un approccio un po’ ginecologico alla cosa, ai cornisti piace.
Dicono che quando l’assolo va a buon fine, si eccitino talmente tanto da dover svuotare le pompe. Dicono sia “condensa”. Dicono.

Infine, quando incontrare un cornista, salutatelo con trasporto. Per una volta, trasportate voi.

Un abbraccio, cari cornisti. In vostro omaggio, un lieto video del più famoso duo per corno solista.

(oh, se vi siete persi la puntata sull’oboe, la trovate indugiando qui)

 

L’oboe esiste.

L’oboe esiste.

Flauta per il sociale: inauguro oggi l’iniziativa “Conosci sto piffero”, ovvero farò una bella carrellata di strumenti musicali (a fiato, per ora) e loro suonatori (“buonanotte ai”).

Vedo una domanda rimbalzare nelle vostre menti: perché?
Molto semplice: perché il piffero è quello delle medie. Il flauto è solo quello traverso (l’altro è flauto dolce), il clarinetto e l’oboe non sono la stessa cosa, il corno inglese e quello francese non sono parenti, e soprattutto se lei suona il piano non è detto che lui la tromba.
Fine preambolo. Non parliamone più.
Mi avvarrò di amici orchestrali oltre ad attingere ai miei trascorsi e a milioni di luoghi comuni, tipo Brescia. Potevo dire Mestre, ma Mestre non fa comune.

Si diceva: l’oboe.

L’oboe NON è un clarinetto. Primo enunciato.

E’ la spalla dei fiati (ovvero, è il rappresentante unico, il boss, l’amministratore delegato) e sta a fianco del primo flauto. Il suo leggio lo becchi subito, ha la macchinetta (l’intonatore, visto che dà il La a tutta l’orchestra) e una scatolina cilindrica dove immerge l’ancia per inumidirla. Quindi: l’oboista ha un saaaaacco di saliva e un saaaaacco di vecchi contenitori di pellicole.

O meglio: i portarullini sono vintage, quindi stanno tornando di moda alla grande, ma sono stronzi perché ti si aprono in borsa allagando tutto. Le alternative: contenitori per le urine, provette, tubi Falcon (chicche per gli scienziati), contenitori delle marmellatine. Tanto lo so che state ancora pensando “CONTENITORI PER LE URINE??”.

Sono amabilmente chiamati Geppetti perché si fanno le ance da soli. (Anche per altro, ma no, vabbé, son cattiverie).
La leggenda dice che passino ore ad intagliare lamelle di canna (non quella canna, su, dai, fate i bravi), affilandole col coltellino, legandole a due a due attorcigliandogli un filo colorato, ed inserendole in scatoline di cuoio, tipo i proiettili in Roger Rabbit.

Per costruirle ci vuole del tempo, molto tempo. Molti oboisti comprano i pezzi di canna di bambù grezza da sagomare o gìà sagomata. Questa deve essere piegata e legata al cannello (quel supporto cilindrico foderato di sughero che viene inserito nell’oboe). Tra bestemmie varie, questo richiede una ventina di minuti per ancia. Lo step successivo, senza dilungarmi troppo, è aprire l’ancia e cominciare a grattarla e levigarla con il coltello. Questo passaggio può richiedere giorni perché, se si vuole ottenere una buona ancia, ci sono dei tempi di “riposo” del legno.
Non è dato sapere se un’ancia si sia mai trasformata in un bambino vero.

Ogni ancia può uscirti bene come meno bene, può essere adatta al solo della vita, all’anatra di Prokofiev o al solo di Pulcinella di Stravinskij, o a cacciare i piccioni dal balcone studiando lo staccato.
La mia amica Elena dice che devono starti addosso come scarpe su misura. Scarpe piene di segatura.

Prima di inserire l’ancia nello strumento, frullano. Ovvero: fanno PEEEEEEE. Serve a capire se l’ancia è umida o meno. Non so se sia vero, non ho mai avuto un moroso oboista.

Ecco. Le buone notizie finiscono qui. Il resto, ve lo anticipo con infografica:

L’oboe è fottutamente #maiunagioia.

Ha un suono figo, è nasale (un po’ come il clarinNO NON E’ UN CLARINETTO!) ma molto più elegante, femminile, struggente.
Si mescola coi timbri degli altri strumenti in modo sublime, talmente sublime che se lo magnano e non lo si riconosce più. A meno che non ci sia quello: lo SQUAK. E’ quel gracchio (detto in termine tecnico scrocco) che si ottiene calpestando per sbaglio un’anatra. E’ inversamente proporzionale alle ore di note lunghe studiate dallo strumentista, ma a volte arriva, bastardo, nel bel mezzo dell’assolo. E i colleghi, regolarmente, si voltano verso il colpevole scuotendo il capo con riprovazione.
L’oboista cercherà di dare la colpa all’ancia fatta male (quindi è colpa sua) o soffiando sulla meccanica mimando invisibili bolle d’aria che chiudono i tasti (certo, certo).

Come dice Elena: “Noi non scrocchiamo mai. Essendo l’oboe uno strumento semiautomatico, a volte la diteggiatura non è comoda come si vorrebbe, per cui in alcuni passaggi, le dita devono muoversi veloci e in posizioni anguste ed ecco che viene fuori lo scrocco”. Semiautomatico, dice. Pure noi flauti siamo semiautomatici, ma non scrocchiamo mai. Mai, eh? Mai mai mai.

Ed ora, sveliamo una grande verità: perché è proprio l’oboe a dare il LA all’orchestra?

Perché gli consentono di fare una nota all’inizio, per contratto. Poi gli si suona sopra. Tutti. E’ il bullismo orchestrale, baby. E comunque, se non gliela lasciassero fare da solo, poraccio, non si sentirebbe mai per tutto il concerto. Pucci.

Infine: l’oboe è bello, ma c’è sempre uno più bello di lui, per l’apoteosi del #maiunagioia di cui sopra. C’è lui, il corno inglese. E’ un oboe ma più figo, più grande, con qualche cupola sulla canna manco fosse una chiesa ortodossa. E fa i soli, da figo. L’oboe il lavoro sporco, l’inglese lo snob. E’ l’evoluzione, come i pokemon.
E non è il corno francese. Quello è n’altra roba. Non c’entra un corno.

Concludendo: se vedi un oboista, digli “Ma ciao! Ma suoni L’OBOE!” ed abbraccialo.

Perché instintivamente risponderà No è un obOH WAIT, hai detto proprio oboe!” e scoppierà in un pianto dirotto.

E non dire altro. Non dire “Mio zio suonava il clarinetto”, non dire “Dai fammi la papera!” e nemmeno “Abbellooo, anche oggi ti sei fatto le canne!”.

Chiedigli invece se ha un’ancia buona, oggi. Digli che domani sarà migliore. Digli che c’è sempre, in fondo al tunnel, un’ancia migliore. Diglielo.

Ovviamente, parlandogli sopra.

(Grazie alla mia amichetta Elena Giusto, oboista, per aver verificato che tutto ciò risponde a verità, il #maiunagioia in particolar modo..)

 

Io sono come mia nonna.

Io sono come mia nonna.

“..te piacerebbe…”
Mia nonna era una pianista. Era una donna con uno stuolo di figli, scappata da Zara (non il negozio, la città dalmata, su..) costretta dagli avvenimenti causati da Tito e da una guerra subdola, che “invitava gentilmente” gli italiani ad andare a casa loro (che al tempo era la Dalmazia, casa loro, ovvero l’Italia, ma l’Italia al di là del Mediterraneo li definiva, e li definisce anche ora, croati, e all’epoca pure fascisti… ma questa è un’altra storia). Era una profuga. Io son figlia di immigrati, alla fin fine.

Lo stuolo di figli, dicevo. Ognuno, dai ricordi che ho dei miei zii, che in verità non ho mai frequentato a sufficienza, aveva un bel caratterino, gestirli non dev’esser stato facile. Mio nonno, che non ho mai conosciuto, è una figura mitologica che mia madre ha circondato di mistero sacrale e che, in sostanza, è morto troppo presto, cieco per giunta, e forse poco incisivo nelle decisioni di famiglia. Mia nonna era un caterpillar. Gestiva tutto, decideva, comandava. Sul comandava potrei scriverne a fiumi. Magari lo spiego dopo.

Insegnava pianoforte, severa come pochi, ricordata con rispetto e timore dai suoi ex allievi. Non ricordo gesti di affetto, coccole da nonna o libri di fiabe o torte e dolcetti, non ricordo nemmeno particolari sorrisi. Era una tosta, mia nonna. Mi regalò la prima Barbie, i primi peluche, tanti fumetti. Sembra non avesse passione per le figlie femmine, e quindi ancor meno per le nipoti femmine, ma io che ne so, tutto ciò che pensavo era filtrato da mia madre… mia madre che traduceva tutto attraverso un vissuto di mezze verità e sacre fandonie divenute per abitudine più verità del reale. Balle, insomma. Ma balle a cui credeva sinceramente.
Torniamo a mia nonna: c’era un disegno di Beethoven a casa mia, fin da bambina pensavo fosse un ritratto di nonna, non del buon Ludovico. Era uguale. Inclusa l’espressione socievole.
Viveva sola, a turno riceveva una famiglia di uno dei figli, nella sala da pranzo agghindata con tutta l’argenteria in pole position, immaginiamo la piccola flauta che a pochi anni e con poco appetito doveva districarsi tra troppe posate e tanto galateo. Ecco, abbracciamola, quando poi scappa nell’altra stanza, con le sedie a dondolo al posto del divano, a guardare la prima tv a colori.

Mia nonna era del 98. Nel senso, 1898. Centouno anni più di mio figlio. Non so sostanzialmente nulla di lei, se non quei ricordi filtrati da, ecco, l’ho scritto prima.
Forse non era così anaffettuosa. Voleva sinceramente bene a mio padre, suo genero, che le dava del lei, e non a mia madre (ma anche qui, il plugin verità/esagerazione è attivato). Per lei lo studio era sacro, non si discuteva sul fatto di studiare, era come respirare. Ecco, le somiglio, in questo.
Ed era severa, materna e disciplinata con gli allievi, come fossero stati tutti figli acquisiti, ed anche in questo, ci siamo.
Era tosta. Madonna santa se lo era. Aveva affrontato la guerra, la fuga a Venezia, il figlio strappato di casa dai titini e fucilato poco dopo (il plugin dice sia ancora disperso in guerra..), rimanere vedova con troppi figli da sistemare, tener botta fino a 86 anni, tener botta ancora fino ai 100 in una casa di ricovero. Le case di ricovero non sono dei bei posti.

Mia nonna comandava, già. Però. Un giorno abbiamo suonato insieme, sarò stata alle medie, ero una ragazzetta. Non ricordo assolutamente cosa, ma tant’è, nella mia famiglia suonare insieme era un qualcosa che andava fatto, quasi fosse l’unico gesto d’affetto che ci si sapeva scambiare. Io, quella volta, comandavo. Scorbutica, pure. Mia nonna, mia nonna al piano, mia nonna accompagnava, mia nonna sopportava lo sclero del solista, piegata e paziente e disciplinata secondo il suo ruolo. Serissima.
Io sta cosa del comandare, ci ho messo tempo eh, ma sto guarendo. Adesso semmai coordino. Chissà, magari con calma le generazioni smaltiscono le attitudini dei progenitori, anche se probabilmente rimangono lì sotto a spingere, indomite, quando si smette d’essere buone persone.

E quindi. Mia madre, in una sfida alla vita, è ancora in ospedale. Riferiva che lì “tutti le dicono cosa fare, tutti vogliono comandare”. Ed io e mio fratello, la generazione che smaltisce, ha saputo commentare in modo adulto, ragionato, come per dirsi “vi somigliamo ma siamo migliorati”. Già.

“Col trattore in tangenziale”. In coro.

Dovremmo invece parlare del suicidio.

Dovremmo invece parlare del suicidio.

14241430_10153730949566555_8841268622361147006_oSì, parlarne. Affrontarlo, sminuirne l’importanza, superarne l’aurea di tragedia e rivalsa, e denuncia.

Capita, capita a tutti di pensarci, per assurdo, o realmente. Mi lascia la morosa, perdo il lavoro, sono malato, sono vittima di soprusi, ricatti, bullismo, o semplicemente la mia vita è una merda: mi ammazzo. Peccato che nella maggioranza dei casi non è una cosa mia, mi ammazzo e ciccia, per “sparire” e basta…
“Mi uccido così la mia ex si sentirà in colpa tutta la vita”. “Il mio capo poi, sai che vergogna per l’azienda?”. “Brutti bastardi, mi ammazzo così sarete contenti, vi linceranno sui giornali e sui social, mi ammazzo e vi rovino la vita”.

Ma dài. Mòna. La vita la rovini a te e a chi ti vuol bene. E soprattutto “Ci vuole coraggio per ammazzarsi” è un’idiozia. Ci vuole coraggio per restare.

Vuoi sparire? Puoi farlo. Nulla come lavorare, entrare ed uscire in ufficio, far la spesa, tornare a casa ogni giorno nel traffico, ci rende trasparenti al mondo. Se poi dentro stiamo male, è fantastico come il mondo riesca ad ignorarci completamente.

Ecco, stare male. Dovrebbero insegnarlo a scuola: stare male è necessario. E a volte si va a fondo, manca l’aria, si ha dentro solo la rabbia e l’impotenza di cambiar le cose, l’incapacità di rassegnarsi per poter andar oltre.

Il peggio è la mattina, quando realizzi quel qualcosa che ti dilania. Ti svegli neutro, ma ecco che arriva a trafiggerti quella realtà che ti strozza da giorni, o da mesi. Piglia all’altezza dello stomaco, e rantoli.

Poi passa la giornata e hai momenti anche stabili, ma poi arriva come una ventata, ti pugnala mille volte il ricordo della realtà in cui sei, ti manca il fiato. Vorresti solo che smettesse di fare così male. Ad ogni costo.

Ma ammazzarti non è una soluzione. Non c’è nessun motivo valido per ammazzarsi. E tanto meno è figo ammazzarsi, o minacciare di ammazzarsi, o pensarlo proprio. Se sei in grado di pianificare il tuo suicidio, allora sei ben in grado di sopportare la sofferenza ed attendere di poterla superare e risolvere.

Di questo dobbiamo parlare: il suicidio è ridicolo. Ridicolo.
Ti uccidi? Hai perso. Non hai vinto niente, non hai vendicato nulla, non hai risolto nulla. Sei anche un egoista, perché uccidendoti fai del male a chi ti ama.

Stai male? Questo è un alto discorso. Il dolore, per qualsiasi motivo al mondo, è sacro, mai mi permetterei di deriderti.
Non ho una formula per aiutarti. Se avessero messo in rete un mio video con un amante, ci credo, sarei incazzata, offesa, non so come reggerei. Se mi bullizzassero a scuola, o nel lavoro, forse vorrei gesti plateali per vendicarmi, per invertire l’ordine vittima-carnefice. Se il mio uomo non mi amasse più, se morisse qualcuno di importante, se mi ammalassi di qualcosa di davvero grave, penso che scivolerei in un tunnel terribile. E soffrirei da morire, ma non da morirne.

Ammettiamo il dolore. Concepiamo la sofferenza. Succede, è necessaria, ci massacra e ci cambia, bisogna attraversarla, subirla, lasciarla ferirci, straziarci, umiliarci davanti a tutti.
Le soluzioni a volte ci sono, a volte no, bisogna solo attendere che passi.. e spesso ci mette più tempo di quello che siamo disposti ad attendere.
In quello siamo coraggiosi, nell’attendere.

Viva la sofferenza. Perché quando se ne va, siamo persone nuove. Ma uccidersi, uccidersi non risolve niente.

Del perché non parlo più di Siae

Del perché non parlo più di Siae

Molti anni fa, quando ancora il presente blog veleggiava su Splinder, scrissi un divertente post su “Come farsi un amante“. Era ovviamente ridicolo, ironico, un post da cazzeggio, ma santiddio, all’epoca non ci si prendeva troppo sul serio. Beh, nel tempo la parte dei commenti divenne una sorta di posta del cuore, svelando tutto un mondo di fedifraghi alla ricerca di sistemi infallibili per scoprire come si trova un amante, come si sopravvive senza disintegrare la relazione ufficiale, trucchi e metodiche comprovate per farla franca… ed ovviamente “Lascerà mai la moglie per me?” (No, fanciulle, no, se la lascia dovreste sorbirvelo da sole e no, non è per niente bello. Ringraziatela, la sua santa moglie, che si prende il peggio di quell’uomo al posto vostro).

Per parecchi anni è stato divertente. Io sono ben poco bigotta su quell’argomento (pe’ forza, non son più sposata…) e notoriamente infedele, ero già abituata a sentirmi chiedere “consigli” dagli amici in RL, non è stato un problema.

Poi ho iniziato a scrivere di Siae.
Prima la famosa lettera al Ministro, con risposta del Paoli, titoli immeritati su qualche giornale, visibilità che ho sfruttato per iniziare un’opera di divulgazione, novella Alberta Angela dei musici, su Siae, borderò, diritto d’autore, collecting alternative, con il supporto di amici più esperti di me per i quali facevo da megafono.
E’ stato sconvolgente scoprire la supponente ignoranza di tanti, troppi colleghi, spinti “a prescindere” contro la Siae, senza però conoscerne nemmeno vagamente i meccanismi. Oh, s’intende, non son mai stata una simpatizzante, nemmeno mi son mai messa a difenderla, ma non ho l’abitudine di straparlare di qualcuno/qualcosa per sentito dire, stile tifo da stadio, scritte sui muri, insulti da bar sport. (Sì okay, potrei dire “frase sui social sotto notizia politica seguita da 11”, capireste meglio).

Poi sono arrivati inviti a conferenze (sempre a titolo gratuito), consulenze telefoniche, via chat, durante le prove, per strada, a volte da amici e colleghi che manco un caffé, un saluto con una mano, e pure INDISPETTITI se non avevo tutte le risposte alle loro domande.

 

Che poi. La risposta che vorrebbero dessi a tutti è “Ma certo, sfancula la Siae e vai con la XXXX che ti fa tutto aggratis però guadagni tantissimo”. E invece.

 

Ecco, amici, colleghi, simpatizzanti, benemeriti sconosciuti: io sono un musicista. E’ questo il mio mestiere.
Posso darvi una dritta, ci mancherebbe, come spesso succede quando ci si consulta per cambiare microfono, effetti, boh, parrucchiere. Ma basta, vi prego, basta considerarmi il vostro consulente di fiducia, perché mi avete tolto la vita in tre anni.
Quel che vi consiglio è fare qualcosa per voi stessi: informarvi, sempre, perché le regole cambiano velocemente ed è IL VOSTRO MESTIERE sapere come funziona il diritto d’autore, come si compila un borderò, come mettere i bollini dei vostri cd.

Lo sapete che ora il borderò si può fare online? Lo sapete che per un concerto jazz NON dovreste compilare il borderò dei concertini ma quello Blu, che vi conferisce TUTTI i vostri diritti? Sapete che, invece che lamentarvi, potreste segnalare un mandatario malandrino direttamente alla Siae, agilmente con un messaggio privato su Twitter o su Facebook?
Ed ancora: siete soci di SOS Musicisti, dell’Acep, di qualche sindacato di musicisti, o almeno ne seguite gli aggiornamenti?

Bene. Fatelo. Informatevi. Vogliamo esser considerati al pari di ogni mestiere? Non siate cialtroni, allora, informatevi. Difendete il vostro lavoro.

E se invece ci tenete a chiedermi qualcosa lo stesso… offritemi da bere, organizzate una data insieme, siate gentili. Almeno, gentili.

 

Come depositare un’elaborazione di un brano di altri

Come depositare un’elaborazione di un brano di altri

Ipotizziamo di voler depositare in Siae, invece che un nostro pezzo originale, un nostro arrangiamento. Non intendo solo cambiare organico, tipo La Flauta che vuole arrangiare il Tristano e Isotta di Richard Wagner, per flauto, piano, voce recitante e diggey… ma una propria versione, con testi differenti e accordi pieni di undicesime diesis e drum’n’bass che pompa.
Lo arrangia, lo incide, lo suona anche in pubblico: che si fa, scriviamo “R. Wagner” sul borderò, anche se oggettivamente è una estrema elaborazione dello spartito del buon Richard?

Ve lo dico: io di solito, amen, scrivevo proprio R. Wagner. Stessa cosa quando suono la nostra versione di Teardrop, dando i diritti ai Massive Attack, o al buon Herbie Hancock per Maiden Voyage, anche se ci somiglia pochissimo.

E se invece volessi depositare e ricevere i diritti per la mia elaborazione di un brano, posso farlo?

Sì. Posso farlo. Non è una passeggiata, non è detto che mi riesca, ma posso farlo.

Un po’ è descritto sul sito Siae, un po’ (molto di più) mi è stato spiegato dal mio amico Luca Ruggero Jacovella, mio insostituibile mentore.

Innanzitutto: il termine usato da Siae è elaborazione creativa, quindi non vale fare un arrangiamento di Tanti auguri a te per coro gospel:  deve avere una valenza artistica.
E bisogna esserne certi, perché non è un deposito “automatico”, bensì dovrà essere vagliato da una commissione Siae (il Comitato Elaborazioni della Divisione Musica) per la modica cifra di € 12,40 + IVA 22% come diritti amministrativi di procedura. Alla fine, se verrà considerata genuina elaborazione creativa, gli verrà assegnato un “punteggio” in ventiquattresimi (il diritto d’autore è sempre diviso in ventiquattresimi).
Quindi il Tristano della Flauta, con buona pace dell’amico Wagner, potrebbe diventare “DallaValle-Wagner/TristanUndIsolde” e fruttarmi 4/24i del diritto d’autore.

Ipotizziamo invece ch’io voglia incidere una mia versione del successo di Laura Pausini “La solitudine”, quindi un brano non di pubblico dominio.
In tal caso, sempre che sia una valevole elaborazione creativa, la commissione non serve. Yuhhu.
Però, visto che il brano non è di pubblico dominio, devo chiedere autorizzazione all’autore e all’editore. E anche se magari io e Laura Pausini siamo amiche su facebook e ci mandiamo i poke (no, vabbé), Laura non è autore, devo chiedere a  Angelo Valsiglio e Pietro Cremonesi, autori delle musiche, ed ad Federico Cavalli, autore con Cremonesi del testo. Inoltre, devo trovare l’editore (e devo arrangiarmi, Siae può solo fornirmi gli elenchi degli editori per contattarli) e chiedere il suo consenso. Anche in caso di solo riadattamento del testo (una versione in veneziano della Solitudine potrebbe svoltarmi la carriera) prevede la medesima procedura.

Insomma, tutti quanti devono autorizzarmi e sottoscrivere la “Dichiarazione di espresso consenso all’elaborazione”. Inoltre, presenterò anche il Modello 150/B, ovvero una bella relazioncina su come ho trasformato La Solitudine in un brano che spazia dal Jazz alla Jungle con testo in veneziano, con una valenza creativamente interessante.

In tutti i casi dovrò presentare, come sempre, spartito dettagliato dell’originale e della mia elaborazione, o supporto sonoro se non tutto è trascrivibile su pentagramma.

Ne vale la pena?

Forse sì, forse no. Dipende. Molti di noi incidono proprie versioni di brani di altri, regalando i diritti anche se la propria versione è innegabilmente differente. Ma visto che qui vogliamo esportare creatività, e non cloni di musiche di altri, esorto tutti a provarci.

Io, col Tristano di Wagner, ci sto lavorando. Sai che figo. DallaValle/Wagner. Madonna santa.

Mio figlio è dislessico ed ha 7 in italiano.

Mio figlio è dislessico ed ha 7 in italiano.

Quattro anni fa uscivamo da una scuola senza vie d’uscita. Sembrava un incubo. Come fosse un tavolo, con quattro gambe, che non ne voleva sapere di stare in piedi.
Poi è arrivata la dottoressa Tiziana, conosciuta per caso grazie alla moglie del mio batterista, e con una serie di test è saltato fuori che il tavolo stava benissimo in piedi, bastava guardarlo dall’altro lato.

Anni di mappe, riassunti, schemi, modi alternativi di fissare gli argomenti. Anni di calcolatrici perse per casa, appunti passati via WhatsApp dalla compagna di classe e ricopiati da me mille volte, libri da leggere e verbi di inglese da schematizzare. E la matematica, ah la matematica, e Letizia che ci corregge al telefono, al volo, le espressioni che non tornano. E le leve, con Paolo che le schematizza in tre dimensioni con equilibrismi di righelli e matite (e accendini).

Dall’altra parte, litigi più o meno palesi, diplomazie e rincorse di suggerimenti e informazioni dai professori. E ognuno a dire quanto è simpatico ed educatissimo… dimenticando che potrebbero comprendere le difficoltà e ogni tanto interrogarlo, invece che puntare per pigrizia sullo scritto. Eppoi c’è la prof che ripete quanto è straordinariamente maturo e sveglio, pieno di idee e di interazione, compensando quell’altro che abbassa il voto perché “scrive disordinato”, come se la diagnosi di disgrafia volesse dire patatine.
Ed i compagni di classe, che non perdono occasione di infierire, con quella crudeltà tipica delle medie.

Eppoi son arrivate le superiori. Un altro universo.

Ormai il metodo lo si conosce, si sa dove insistere e dove accontentarsi, si impara quali sono gli ambiti in cui pretendere da se stessi l’eccellenza. C’è l’adolescenza, croce e delizia, e le redini da tener strette per non perdere l’obiettivo, perché basta una settimana “da mona” e ti prendi un’insufficienza dura da recuperare, un’amicizia dispersiva che ti cambia agli occhi dei professori, un amore fresco che ti fa perder la testa. Però ce la fai, sei dislessico, sei abituato a superare le montagne, a tener duro quando la testa è già stanca e le lettere svolazzano a destra e a manca.

Ed è fine anno. E guardi i tabelloni. E sei promosso, con una sfilza di otto (e pure un nove), e ti chiedi com’è che da dislessico adesso sei tra i migliori della classe. E sei orgoglioso, o almeno lo spero, quanto lo è la tua mamma.

Anni fa avevo scritto della prima diagnosi, perché non se ne parla nonostante i disturbi dell’apprendimento siano molto comuni, scambiati per svogliatezza o per “disabilità” (ma sta cippa proprio, eh).

Un esempio di cosa sia la dislessia?
Mio figlio, quando legge la parola Zortea (ridente paesino di montagna) legge “Zoreta”. Il suo cervello acquisisce l’informazione delle lettere e le ordina secondo un sistema per lui logico. Quando legge parole più comuni, come, che ne so, “LA FLAUTA”, magari legge “LA FALUTA” e poi deve riorganizzare nuovamente la lettura dandogli un senso che conosce, comprendendo che c’è probabilmente scritto il soprannome di sua madre e non un (che ne so) ulteriore paesino di montagna. 
Immaginate cosa significhi questo processo di elaborazione doppio applicato ad una pagina di letteratura…

Voglio riaprire il discorso perché quella pagina è stata letta da moltissime persone, con commenti e con mail private, nelle quali molti genitori ed adulti dislessici mi hanno confidato l’angoscia che prende quando devi affrontare, dal nulla, il discorso “ho un figlio dislessico”. Perché poi va a finire che non vedi vie d’uscita, è una salita dolorosa che mette alla prova genitore e figlio, anche nella stima di se’ stessi.
Ed invece, non serve uscirne: bisogna solo trovare i mezzi per proseguire. La salita poi si appianerà e si potranno superare anche gli altri corridori, facendo fiato ed ogni tanto… godendosi il panorama.

Il nostro panorama è questo: il tabellone di fine anno di prima superiore, ed un sette in italiano. Se si dava una mossa, magari diventava anche un otto, come in storia…. ma ci sta. Se ci voltiamo a vedere il sentiero percorso, comprendiamo di quanto importante sia questa tappa, in termini di fiducia, di obiettivi da rivedere, di ambizioni da ingrassare.

E adesso, si va avanti. Anzi, va lui avanti, ormai non ha (quasi) più bisogno di me…