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Categoria: sentimental mood

Il mio papà

Il mio papà

Mio padre era un sociologo.
Mi avevano addestrato a questa risposta, quando mi si sarebbe chiesto a scuola “cosa fa il tuo papà”. Non ho mica mai saputo cosa volesse dire: sapevo che tutte le mattine andava in ufficio, in comune, dove tutti lo chiamavano dottore. Confusione nella confusione, visto che non mi sembrava fosse medico di qualcosa, ma tant’è, la mia infanzia ed adolescenza era ricolma di risposte sbrigative. La più tipica era il “No, perché di no”.

Con mio padre l’affetto era pratico. Discussioni senza guardarsi in faccia, sfide dialettiche infinite, ed a volte qualche inspiegabile apertura, alleanza improvvisa che mandava in bestia mia madre.
Era polemico, io ero polemica, ci si scambiava informazioni di base senza racconti. O meglio, io ci provavo a raccontare, in quella filiale necessità di approvazione, ma più volte facevo il gioco “…e poi ho aperto il frigo, è scappata la bicicletta e speedy gonzales si è fatto una canna nel mio salotto”. Lui rispondeva “a-ah”, ammissione inscusabile di indifferenza.

Non ho mai capito cosa volesse da me. Mi aveva sostenuta fin da piccola a suonare, portandomi a lezione due volte a settimana, neve-pioggia-vento-calura,arrivando poi in ritardo a riprendermi… e il mio Maestro allungava di altri venti minuti, per “far sentire al dottore l’ultimo studio”. Poi mi aveva spinta in conservatorio, mi aveva accompagnata ai miei concerti quand’avevo la febbre, o a dare le lezioni quand’ero incinta.
E poi, in tribunale, in quella parte della mia vita che forse ha contribuito ad ammalarlo di più.

Tant’è che un giorno gli ho dato un mio disco, “ascoltalo eh papà”, confidando in un gesto della già citata approvazione di cui ero doppiamente assetata, visto che mia madre non lo avrebbe mai ascoltato. Per la sordità, quantomeno. Macché, era pratico, si registrava ogni concerto e ascoltava pacchi di dischi ma il mio era ancora lì, nel cellophane. Ero furente. Sapevo benissimo che stava per mollarmi, ma volevo costringerlo a sentirmi suonare un’ultima volta, e vivere l’ultimo Natale con noi, con il suo adorato nipote che beneficiava del suo affetto disinibito, oltre che pratico, e che avrebbe ricevuto una mazzata tremenda con la sua dipartita.
Passeggiavo con Paolo, mesi prima, e glielo dicevo, che vedevo già tutto come sarebbe stato. Forte della mia premonizione, pretendevo che il programma fosse rispettato, con l’aspetto pratico che contraddistingueva il nostro rapporto.

Quasi obbligai mio padre a venire al concerto di presentazione del disco. Mi aveva già vista dirigere, certo, ma non musica mia. Ero emozionata, mi dicevo “è l’ultimo concerto che mi vedrà fare mio papà”, consapevole di un dolore che mi avrebbe travolta. Lui venne, mia madre mi raccontò di un suo momento di grande emozione, ma conoscendo l’aspetto melodrammatico della mia genitrice so bene che ogni sentimento è sempre stato misurato. E’ stata una caratteristica di famiglia che ho con decisione abbattuto a craniate. Tant’è che al “papà ti è piaciuto?” non ricordo il commento. Probabilmente avrà ricordato l’inaugurazione della sala, i progetti redatti da tizio e caio, la giunta di quel periodo, terminando con un “ndemo che xe tardi”.

Il patto comunque era fatto, era venuto. Ora toccava a me. Un’alba di qualche settimana dopo squillò il telefono, nel precipitarmi a casa sua per portarlo all’ospedale sentii un vento gelido di consapevolezza che mi spinse oltre, quei venti giorni successivi, quel suo calvario. Chiama il medico, porta le carte, infermiera la flebo, attenderlo fuori dalla stanza mentre dentro cercano di riportarlo di qua per un altro po’. Lo stesso vento gelido lo sentiva pure lui, ma era piuttosto inutile discuterne, meglio ragionar di cose pratiche. Venti giorni, il mondo esisteva in parte, di base c’era lui. Mi stavo sfinendo, ma sapevo si trattava di pochi giorni, lo sapevo solo io, io e lui. Avrei potuto parlargli, finalmente era lì costretto ad ascoltarmi, ma invece passavo il mio tempo a mettergli la crema sulle mani, dove le flebo scavavano d’azzurro le sue qualità di pianista, o a fargli la barba. Mai avrei pensato di far la barba a mio padre, di colpo così estremamente intimi, impensabile. Mi accorgevo di fissare le mie mani, dedicate ad abbassar tasti di un flauto, trasportate in quel contesto così profondamente diverso.

Una di quelle mattine di dolorosa routine gli scivolò una carezza. Spesso non riusciva a parlare, poteva darmi solo una carezza, come a ringraziarmi, pieno di stupore per tutto quell’affetto e quell’assistenza che temo non si aspettasse nemmeno. Io ero pratica, avevo mollato il lavoro, gestivo come potevo Gabry e scaricavo la mia disperazione in logorroiche telefonate a Paolo, per poi tornare lucidamente alla questione.

Poi mio papà ha deciso che venti giorni bastavano, senza interferire con il mio ultimo esame, due giorni dopo, e con la tesi, a fine mese. Anche io avevo previsto tutto, l’infermiera aveva il mio numero in evidenza, mi ero preparata su come dirlo a mio fratello e a mia madre, che caddero dal pero. Dirlo al Gabry è stato uno strazio che non scorderò mai.
L’ultima cosa che mio padre mi ha detto era per lui. Si preoccupava che tirassi fuori una bistecchina per quando sarebbe tornato da scuola. Pratico.

E insomma, oggi come tante altre volte, ho pensato a mio papà. Ho pensato al bisogno di sentirsi apprezzati, seguiti, ascoltati.
Ho pensato che oggi ho il raffreddore, e se fosse qui mi avrebbe portato medicine, arance e chissà cos’altro. E forse gli avrei dato il nuovo disco. Senza cellophane, stavolta.

 

7mbre

7mbre

Arriva la stagione del ricambio.

E’ scuro presto, hai voglia di farti un thé caldo coi biscotti, metterti un maglioncino la sera, dormire in silenzio, senza il condizionatore, e non uscir più tutte le sere, stare a casa a guardarti un film, “al caldo”.

Tiri una riga, e riprendi le cose sospese, domandandoti cosa c’è da tenere e cosa da buttare.

Di colpo, tutto sta lì, e ha un colore diverso, come il maglioncino preferito di aprile, che adesso non è più così bello come si ricordava. E boh, non sai che farne.

Certe cose devi continuarle, oppure…oppure no. Le guardi, le rigiri, e pensi che non ne sei più sicura. Amici e situazioni, e ambiti, e abitudini.

Un po’ di cose le tagli. I capelli, o certi amici, alcuni impegni, molti obblighi.
Altri rami secchi li ripieghi, li metti in cassetto, per decidere più in là.

Ed altri, altri tornan fuori irrisolti, e ci pensi in continuazione, non sai cosa farne perchè “mah chissà magari poi cambia evolve perdo occasioni”. Però, l’entusiasmo s’è spento, nell’attimo in cui hai messo in discussione il tutto.

Trascini le cose, poi vedi che ne hai di nuove tra le mani, e non ci stà tutto.

E allora, trattieni il respiro, ti riprometti di non aver rimorsi, e via.

Sì insomma, tra un attimo che penso meglio cosa e come. Ma taglio, eh, qualcosa taglio.

Perfect 4 a Flauta

Perfect 4 a Flauta

Passi sotto il Big Ben di Londra, e questo suona il mezzogiorno. Qualcosa vorrà pur dire.
Trovi il negozio che cercavi, provi flauti a profusione, eviti acquisti compulsivi solo per un pelo. E la borsetta che poi ti porti a presso diventa identificativo per incontrare flautisti ovunque. Che ti fermano proprio per strada, manco fossi qualcuno.
Imbracciare un ponte, e trovarsi in un quartiere d’artisti, con banchetti di cose talmente buone che son incluse tra i vizi capitali. E gente, facce, storie, non hai tempo di fotografare, stai ancora in download nella memoria, che vuol mantenere in testa tutto questo.

Ora, ora è il momento di espiare le mie nefandezze. Vado coi vizi capitali. Di cui sopra.

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Cielo.

Cielo.

Ed uscendo dall’ufficio, ho guardato in alto, lo scorcio di cielo tra un palazzo e l’altro.

Azzurro. Azzurro intenso.

E son rimasta lì, paralizzata, a perdermici. Un colore, ampio, pieno di energia e di grandezza, lontanissimo eppure ad un palmo dal naso.

E in un attimo, è esploso, assorbendo le forme dei tetti intorno, i rumori del bar, le auto parcheggiate, la gente che mi passava a fianco.  Immenso, infinito, sicuro di se’ e quasi strafottente della sua grandiosa ed uniforme bellezza.  Quasi un dipinto, con colori fatti di nuvole e gas e atmosfera e chissà cos’altro.

Un diamine di aereo, in cima, decise di tagliarlo, passando perfettamente in mezzo al mio scorcio di tetto azzurro, con la scia bianca spessa dietro, come un taglierino da sarta sulla tela.
Lento, altissimo, pieno di gente che va in ferie, eh sì, non può essere altrimenti. Gente che se ne va, che si staglia nel cielo col naso dentro un giornale, ed una hostess troppo truccata a portare carrelli di succo d’arancia annacquato.  Mentre io, ebete, li spiavo guardando per aria, ferma in mezzo alla calle, naso per aria, indifferente allo sguardo dei passanti intorno.

C’era pure una brezza bollente, di un’estate che s’è ricordata di arrivare, che si strusciava invadente sulla pelle.

A quel punto, ho dimenticato tutto e mi son messa ad essere felice.

Decisioni dall’alto

Decisioni dall’alto

E niente. La scorsa settimana ho sognato il mio papà, in quello spiraglio di semincoscienza tra il sonno profondo e il risveglio della mattina, quando la prima sveglia è già suonata, ma ti appisoli lo stesso.

Era sorridentissimo, il viso più ingrasato, e portava una giacca di camoscio. Camoscio? Mio padre, sempre in completo scuro, camicia e cravatta inappuntabile anche in ferie, con una giacca di camoscio… impensabile.

Si vede che lassù si usa così.

E quindi. Son con mia mamma, dal marmista, a decidere della pietra del loculo. Il colore della resina per l’iscrizione, il tipo di portafiori, la lampada votiva. Mettici la croce, mettici l’N.H. (che siam pur sempre nobili), mettici il dott.,  cavaliere no che non gli è mai piaciuto. Bon.
La foto, la foto la sceglie mia mamma. Ne tira fuori alcune, sempre le stesse, quelle dell’epigrafe.

Ma non sorride mai.

Il Gabry dice che il nonno tanto non sorrideva mai, aveva più uno sguardo tra il sereno e il pensieroso. Mia mamma però insiste.

E quindi, tira fuori una loro foto (“è di qualche anno fa’”, ovvero novembre ’97…) di un loro viaggio a Zara, la città di nascita di mia mamma. Sono al ristorante, qualche buona bottiglia di ottimo rosso davanti, e lui sorride.

Che ve lo dico a fare, ha la camicia perfetta e la cravatta immobile al suo posto. E una giacca, appunto, di camoscio.

…okay papà, ho capito, mettiamo quella.

Ciao.

Dàghe.

Dàghe.

E d’un tratto,  il cervello si fermò, di fronte ad una dichiarazione luminosa.

Le rotelle delle lamentele, delle indecisioni, della confusione e della paura, tutte ferme. Tipo, guardi due ore come metter quel bullone impossibile da incastrare, e d’un tratto… guardalo là, il verso giusto, per forza.

Sapeva perfettamente quello che voleva. Sapeva pure come farlo. Bastava iniziare, e per Dio, basta rimandare. Adesso siamo grandi, abbiamo capacità e mezzi. E se non sappiamo se siamo abbastanza bravi, è solo perchè non ci basta mai sentircelo dire. O perchè siamo talmente idiotamente vanitosi che temiamo di, che scandalo, sbagliare.

Condividere, poi, ah, bel discorso. Condividere significa prender le idee tue e mescolarle con gli altri, scendere a compromessi, infestarle in modo diplomatico con quelle degli altri.  Come se da soli non si sapesse camminare, come se non si fosse (come invece è) comunque soli.

Che poi, i progetti migliori erano stati i suoi, quelli dove ci metteva la faccia, dove veniva punita ed esaltata, ma lei sola.

Un’illuminazione. Vado, decido, faccio. Niente di tanto preoccupante.

Raccolse le idee, pianificò gli ingredienti necessari, e senza proferir parola a nessuno, iniziò.

 

 

(e magari pensò al cambio del template del blog, nei momenti liberi)

La coda del bacio

La coda del bacio

Appoggiò la testa sulla sua spalla.

Un abbraccio lieve, quelli che seguono un lungo e straordinario bacio, di quei baci che non sai se finire, se aspettare che lo finisca lui, se ricominciarlo ancora. E appoggi la testa sulla spalla.

Appoggiò la testa sulla spalla, ecco, ascoltando la musica intorno, a contrappuntarsi coi battiti del suo cuore. Le cose e le persone, lì intorno, scomparivano sommerse dalle sue emozioni, in un alone di luce e brividi.

Poteva durare un istante, ma in quell’instante l’abbraccio era eterno, infinito.

Domani non so, ieri nemmeno, ma oggi, in quest’istante, tutto mi sembra immobile, e sconvolgente, e magico. E il calore di un amore che ti dà le vertigini, che ti brucia la testa, che ti colma di commozione gli occhi, che luccicano.

Come una danza, la testa appoggiata mentre noi balliamo immobili, stringendoci i pensieri fino a confonderli, mescolando i respiri pur restando in apnea. Come una danza, una bossanova leggera che ammorbidisce i movimenti, e non batti il piede ma muovi la testa, dolcemente, di qua e di là, quasi un salice che si dondola con un vento caldo dipingendosi di rosso tramonto.

Quanto durava? La fine d’una canzone, la coda di quel bacio, il tempo di veder scivolare via le vertigini, come sentire un vino buono sbocciare in bocca e scendere a scaldarti il petto, o il tempo di una risata. Un poco più di un istante.

Pensa un po’. Me lo ricordo tutto, quest’istante, ed era solo… adesso.

Caro papà.

Caro papà.

Sapevamo entrambi di questo tuo improrogabile impegno. Abbiamo preparato insieme la tua valigia, colma di quella tua vita incredibile, e di un affetto infinito che ora ci inonda gli occhi.  Insieme abbiamo cresciuto Gabriele, ora continueremo a farlo, sebbene con modalità lievemente diverse.

Sono felice: ora puoi mangiare ciò che vuoi, salire su qualsiasi vetta senza timori, leggere senza occhiali, suonare il piano senza più dolori alle mani. Per il resto che sai, tranquillo, mi arrangio io, mi hai tirata su forte e coraggiosa. E come al solito, “..se hai bisogno, chiamami”.

Ti vogliamo bene.

Anna e Gabriele

 

Sol (i tudine)

Sol (i tudine)

Alti e bassi e alti e bassi e alti e bassi..

La solitudine è quella cosa che prende quando si è in mezzo al mondo. Quando si ha un amante addormentato in fianco, una famiglia attorno, amici sempre disponibili, che ti cercano, ti chiacchierano, ti abbracciano.

E’ quella cosa che ti fa smettere di mandare messaggi, chiedere una parola, agitarsi per far notare la propria posizione nel mondo.

Vive di silenzio, che nessuna musica risulta più sopportabile.

Vive di buio, dove le persone possono sparire alla vista.

Alti e bassi e alti e bassi…

La solitudine coglie come un vento gelido, incupendo i pensieri, volgendo al nero ogni azione, spegnendo ogni sorriso, ogni gioia, ogni lieve euforia. Ti prende per un braccio, e ti trascina tra le pozzanghere delle tue lacrime, fino a rinnegare ogni cosa felice. Ti getta addosso gli occhi giudicanti del mondo, che ti fissano, calpestano ed ignorano nel medesimo momento.

Insisti, molla, insisti, lascia stare…

E ti ritrovi a voler fuggire da te stesso, e scappando ti accorgi che te stesso ti segue. Vuoi nasconderti, perchè non saprai mai fare “mea libera tutti”.
Vuoi farti del male, per dimenticare ricordandoti d’aver dimenticato. Vuoi dormire, per sfuggire dal mondo rifugiandoti nel sonno.

In cima, su, sempre più su, per poi d’un tratto cadere, annegare.

La solitudine è così. Ti strozza, ti costringe a prendere le decisioni più assurde, ostinatamente senza chiedere aiuto. Ignorando il mondo, perchè ci si vuol lamentare che il mondo ci ignora.

E poi chiudere la luce del comodino, fissare il soffitto, sentire un peso sul petto a toglierci la voglia di risvegliarci.

E domattina, ricominciare a correre. Soli. Tutti quanti.

…e dopo.

…e dopo.

Quando finirò, so già tutto. Riordinerò i fogli e archivierò gli appunti e i ricordi. Proverò a tener per mano ancora i miei nuovi amici, per non perderli nell’assenza dei motivi comuni.
Ripulirò casa, forse la cambierò, e comprerò nuovi mobili e tende colorate, dipingerò i muri con colori nuovi. Mi affaccerò alla libreria delle storie in attesa, messe in parte per la precedenza alle parole di note. Cucinerò con nuova voglia, senza panini distratti ingoiati in macchina, e tornerò a sentire l’odore di fieno e cuoio addosso, e la stanchezza di un trotto allungato sulle gambe e la schiena. Comprerò nuovi vestiti, cambierò shampoo. Eppoi mi annoierò. E cercherò il prossimo obiettivo. Quando finirò, so già tutto. Perchè ho già in mente qualcos’altro da fare. Ed anche questo mio viaggio è servito a traghettarmi alla prossima partenza. Però lo shampoo lo cambio.