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Categoria: racconti

Dàghe.

Dàghe.

E d’un tratto,  il cervello si fermò, di fronte ad una dichiarazione luminosa.

Le rotelle delle lamentele, delle indecisioni, della confusione e della paura, tutte ferme. Tipo, guardi due ore come metter quel bullone impossibile da incastrare, e d’un tratto… guardalo là, il verso giusto, per forza.

Sapeva perfettamente quello che voleva. Sapeva pure come farlo. Bastava iniziare, e per Dio, basta rimandare. Adesso siamo grandi, abbiamo capacità e mezzi. E se non sappiamo se siamo abbastanza bravi, è solo perchè non ci basta mai sentircelo dire. O perchè siamo talmente idiotamente vanitosi che temiamo di, che scandalo, sbagliare.

Condividere, poi, ah, bel discorso. Condividere significa prender le idee tue e mescolarle con gli altri, scendere a compromessi, infestarle in modo diplomatico con quelle degli altri.  Come se da soli non si sapesse camminare, come se non si fosse (come invece è) comunque soli.

Che poi, i progetti migliori erano stati i suoi, quelli dove ci metteva la faccia, dove veniva punita ed esaltata, ma lei sola.

Un’illuminazione. Vado, decido, faccio. Niente di tanto preoccupante.

Raccolse le idee, pianificò gli ingredienti necessari, e senza proferir parola a nessuno, iniziò.

 

 

(e magari pensò al cambio del template del blog, nei momenti liberi)

La coda del bacio

La coda del bacio

Appoggiò la testa sulla sua spalla.

Un abbraccio lieve, quelli che seguono un lungo e straordinario bacio, di quei baci che non sai se finire, se aspettare che lo finisca lui, se ricominciarlo ancora. E appoggi la testa sulla spalla.

Appoggiò la testa sulla spalla, ecco, ascoltando la musica intorno, a contrappuntarsi coi battiti del suo cuore. Le cose e le persone, lì intorno, scomparivano sommerse dalle sue emozioni, in un alone di luce e brividi.

Poteva durare un istante, ma in quell’instante l’abbraccio era eterno, infinito.

Domani non so, ieri nemmeno, ma oggi, in quest’istante, tutto mi sembra immobile, e sconvolgente, e magico. E il calore di un amore che ti dà le vertigini, che ti brucia la testa, che ti colma di commozione gli occhi, che luccicano.

Come una danza, la testa appoggiata mentre noi balliamo immobili, stringendoci i pensieri fino a confonderli, mescolando i respiri pur restando in apnea. Come una danza, una bossanova leggera che ammorbidisce i movimenti, e non batti il piede ma muovi la testa, dolcemente, di qua e di là, quasi un salice che si dondola con un vento caldo dipingendosi di rosso tramonto.

Quanto durava? La fine d’una canzone, la coda di quel bacio, il tempo di veder scivolare via le vertigini, come sentire un vino buono sbocciare in bocca e scendere a scaldarti il petto, o il tempo di una risata. Un poco più di un istante.

Pensa un po’. Me lo ricordo tutto, quest’istante, ed era solo… adesso.

pioggia

pioggia

C’era un tramonto, ingoiato dalle nuvole nere, e un vento di pioggia che spazzava tutto.
C’era la fretta del mondo, che desiderava mettersi al riparo, e i pensieri di panni stesi e finestre aperte, e fiori delicati lasciati incustoditi.
C’era il traffico del tardo pomeriggio, e le prime gocce d’acqua a profumare l’asfalto caldo, e il rumore del tergicristallo che stride sul parabrezza ancora asciutto.
C’era un mondo normale, intorno, unito dal comune pensiero di un temporale estivo che spegne le luci alla città.

Giulia si era appena svegliata dai sogni, tenuti stretti con le unghie, per mesi. Aveva voluto per forza vedere solo un colore, nelle sue cose, sentire solo un gusto, solo un’inquadratura, nelle sue giornate. E poi, d’un tratto, aprire gli occhi, e rivedere che tutto l’aveva aspettata. Tutto, ma soprattutto ciò per cui così volentieri aveva chiuso gli occhi.
Alzò il cappuccio sulla testa, cercando le chiavi della macchina nella borsa, rimestando le sue cose inutili alla cieca, fidandosi di riconoscerle al tatto. E cercava, e si agitava, come se stesse provando a trovare la chiave di volta della sua esistenza. Iniziava a piovere, e non le trovava, continuava a confonderle con mille scemenze, di cui la sua borsa, e la sua vita, era piena, senza mai il coraggio di metterle in ordine, e lasciarle a casa, e buttare scontrini e pensieri una volta per tutte.

Le chiavi, ovvio, erano in tasca. Silenziose. Come ad attendere il momento in cui Giulia sarebbe crollata, al culmine dell’insofferenza. Con affetto e pazienza, aspettavano. Sapevano che non erano loro la soluzione, sapevano che non erano solo gocce d’acqua, non era solo un temporale. Era tutto, che tornava fuori, insultando Giulia di non essersene occupata più, incolpandola di aver voluto, per una volta, posticipare certi dolori.

Pioveva. Gocce grosse come noci. Giulia fissava le chiavi, distese sul palmo della mano, davanti alla sua macchina, sotto un diluvio. E ritrovò tutti gli arretrati di sofferenza, tutti lì, a scenderle addosso, bagnandole le chiavi, e le soluzioni.

Caro papà.

Caro papà.

Sapevamo entrambi di questo tuo improrogabile impegno. Abbiamo preparato insieme la tua valigia, colma di quella tua vita incredibile, e di un affetto infinito che ora ci inonda gli occhi.  Insieme abbiamo cresciuto Gabriele, ora continueremo a farlo, sebbene con modalità lievemente diverse.

Sono felice: ora puoi mangiare ciò che vuoi, salire su qualsiasi vetta senza timori, leggere senza occhiali, suonare il piano senza più dolori alle mani. Per il resto che sai, tranquillo, mi arrangio io, mi hai tirata su forte e coraggiosa. E come al solito, “..se hai bisogno, chiamami”.

Ti vogliamo bene.

Anna e Gabriele

 

Sol (i tudine)

Sol (i tudine)

Alti e bassi e alti e bassi e alti e bassi..

La solitudine è quella cosa che prende quando si è in mezzo al mondo. Quando si ha un amante addormentato in fianco, una famiglia attorno, amici sempre disponibili, che ti cercano, ti chiacchierano, ti abbracciano.

E’ quella cosa che ti fa smettere di mandare messaggi, chiedere una parola, agitarsi per far notare la propria posizione nel mondo.

Vive di silenzio, che nessuna musica risulta più sopportabile.

Vive di buio, dove le persone possono sparire alla vista.

Alti e bassi e alti e bassi…

La solitudine coglie come un vento gelido, incupendo i pensieri, volgendo al nero ogni azione, spegnendo ogni sorriso, ogni gioia, ogni lieve euforia. Ti prende per un braccio, e ti trascina tra le pozzanghere delle tue lacrime, fino a rinnegare ogni cosa felice. Ti getta addosso gli occhi giudicanti del mondo, che ti fissano, calpestano ed ignorano nel medesimo momento.

Insisti, molla, insisti, lascia stare…

E ti ritrovi a voler fuggire da te stesso, e scappando ti accorgi che te stesso ti segue. Vuoi nasconderti, perchè non saprai mai fare “mea libera tutti”.
Vuoi farti del male, per dimenticare ricordandoti d’aver dimenticato. Vuoi dormire, per sfuggire dal mondo rifugiandoti nel sonno.

In cima, su, sempre più su, per poi d’un tratto cadere, annegare.

La solitudine è così. Ti strozza, ti costringe a prendere le decisioni più assurde, ostinatamente senza chiedere aiuto. Ignorando il mondo, perchè ci si vuol lamentare che il mondo ci ignora.

E poi chiudere la luce del comodino, fissare il soffitto, sentire un peso sul petto a toglierci la voglia di risvegliarci.

E domattina, ricominciare a correre. Soli. Tutti quanti.

quasi in vetta

quasi in vetta

Vorrei, vorrei.

Vorrei poter saper combinare i mille armonici che scaldano i miei pensieri, per farne note nuove.
Vorrei saperle combinare insieme, l’una legata all’altra, in un disegno di suoni che possano abbracciarti, stasera.
Vorrei saper creare un tappeto di armonie per poterti allargare il cuore, e inondarlo di pace, e gioia.
Vorrei poterle suonare, tutte insieme, e trasportarti via da ogni altro luogo, che non sia tra le mie braccia.

Ma son capace solo di rimaner in silenzio, vegliando sulle tue dita, soffiando sui tuoi pensieri per sgrovigliarli, e accendendo la luce quando qualcosa ti sfugge.

E quando avremo finito anche questa bella avventura, immergerò le mie dita fra le tue, e ci inventeremo qualcos’altro da costruire, ognuno per la sua strada, ma tenendoci per mano.

quella metà della mia vita che.

quella metà della mia vita che.

I gesti quotidiani. Il caffè al bar, la briosche, che la barista conosce già i tuoi gusti. Lo sguardo al giornale, scampando dagli sguardi degli altri che incontri. Come nella calle, dietro l’ufficio, che per fortuna piove e puoi nasconderti dietro l’ombrello, e smettere di salutare gli sconosciuti.
Odio, questi sconosciuti.
Passano parte della mia vita vedendomi ogni mattina, sanno come mi vesto ogni giorno, cosa mangio, se ho cambiato taglio di capelli. Sentono il tono della mia voce, conoscono quando sono malata, o se sciopero perchè sostengo quel partito. Sanno anche cosa gira sulla mia scrivania, le mie “competenze”. Nome, cognome, età, stato civile.
Sanno se ogni tanto ingrasso, sanno se mi bruciano gli occhi, sanno se oggi devo andare dal medico, o se vado in vacanza. Riescono a intrufolarsi nel mio privato, origliando le conversazioni private che posso dimenticare di proteggere.

Mi strozzano i discorsi vuoti e inutili, le amenità sul governo e le pensioni e le tasse, i dettagli sul vestito, le pessime battute di chi si permette di vedere il tuo fianco scoperto.

Scompaio, piano piano. E parlo con le voci, da un telefono, che mi protegge dagli occhi degli altri, e null’altro. Mi rinnego, nei miei sorrisi e nella leggerezza del mio carattere, frustrata.

E attendo, tornare a quella seconda parte di vita, in cui la solitudine è dolce, e chi mi ama sa poco di me.

…e dopo.

…e dopo.

Quando finirò, so già tutto. Riordinerò i fogli e archivierò gli appunti e i ricordi. Proverò a tener per mano ancora i miei nuovi amici, per non perderli nell’assenza dei motivi comuni.
Ripulirò casa, forse la cambierò, e comprerò nuovi mobili e tende colorate, dipingerò i muri con colori nuovi. Mi affaccerò alla libreria delle storie in attesa, messe in parte per la precedenza alle parole di note. Cucinerò con nuova voglia, senza panini distratti ingoiati in macchina, e tornerò a sentire l’odore di fieno e cuoio addosso, e la stanchezza di un trotto allungato sulle gambe e la schiena. Comprerò nuovi vestiti, cambierò shampoo. Eppoi mi annoierò. E cercherò il prossimo obiettivo. Quando finirò, so già tutto. Perchè ho già in mente qualcos’altro da fare. Ed anche questo mio viaggio è servito a traghettarmi alla prossima partenza. Però lo shampoo lo cambio.
quelli che come lei

quelli che come lei

Si rimbocca le coperte, vedendo la luce dell’abatjour illuminare discreta la stanza.
Il leggio, accogliendo i suoi fogli, sta’ lì in attesa, in Pause. E lei lo guarda, e se lo chiede, quanto spazio sta dando alle cose che meritano, in questa sua vita. Perchè nemmeno oggi c’è riuscita, a togliere il Pause, anche se ci ha pensato, ci ha ragionato, su quel bel libro che le ha regalato Max, che lontano chilometri condivideva forse le stesse ansie da insoddisfatto perenne. L’insoddisfazione che è la spinta a studiare, ricercare, smontare e rimontare mille volte.
Ma la stanchezza. La stanchezza della noia obbligata, quella che non sai come toglierti di dosso. Che ti costringe a vivere quella vita che non è la tua.

E così si ferma a pensare, a quanti come lei stasera guardano un leggio, o un copione, o il cavalletto coi pennelli, o le scarpette da ballo. A quanti come lei debbono perder tempo in facezie come dover mangiare e pagarsi una casa. A quanti non hanno nemmeno forza e voglia di lamentarsi, di prendersela col governo, o di discutere di come vada in rovina il mondo. A quanti ogni mattina si alzano, spengono la radio, e guardandosi allo specchio si confondono. Entrano nel medesimo ufficio, la medesima scrivania, un caffè dalla macchinetta e la banalità dei discorsi tra sconosciuti con cui, per ore, si passa ogni giornata.

E pensa che non è così sola, in quel lungo respiro che le parte dallo stomaco, piegato da un dolore reale, e la testa che fa male, e gli occhi che bruciano, senza motivo apparente. Sapendo che ogni giorno passato, non si è costruito nulla. Nulla.

Chiude gli occhi, e pensa al giorno della settimana, che tanto è uguale, lunedì, martedì, è tutto uguale. Si torna sempre al punto di partenza.

La luce si spegne, e la postazione della sua arte si addormenta, lo sgabello, il leggio grande ad abbracciare le sue note, il metronomo appeso come se dovesse servire tra poco, e una matita appuntita, lì, che attende con affetto di tradurre le idee in musica.

Forse è giunta l’ora di pensare di farla, la pazzia.

Sotto quella pioggia

Sotto quella pioggia

La gonna al ginocchio, un po’ più pesante, perchè oggi fa più freddo. L’ombrellino pieghevole, ancora gocciolante, in fianco alle scarpe. E lui alla guida, perchè oggi piove, e c’è lo sciopero dei bus, e allora dai t’accompagno.
Un semaforo annoiato, in mezzo al marasma di vite quotidiane, rinchiuse in scatole su ruote, e le cortesie e le bastardate del “farti passare”, in una coda infinita di gente tutta uguale. La rado gracchia, sempre solo noiosa pubblicità, e subito dopo le notizie, che in questo quarto d’ora la musica abbandona ogni frequenza.

Non parla, lui, non parla, lei.
Stanno nel silenzio dei loro giorni, dei loro discorsi che non serve discutere.
Se lo chiede, com’è che sono arrivati a smettere di parlare. O bene, non di parlare, che parlare parlano. Ma di chiacchierare.
Il loro primo viaggio, clandestino, era colmo di chiacchiere e risa, prese in giro e filosofie spicce.
E lui che la prendeva in giro, perchè arrossiva sempre, e lei che faceva finta di far l’offesa. E tornavano a casa, dalle loro famiglie sbagliate, lottando per uscirne. Quando poi erano entrati nella loro casa, il primo luogo dove potersi amare alla luce del sole, e due cognomi assieme sul campanello, tutto poteva dirsi un sogno realizzato. Nulla poteva andar storto, di tutto ciò che avevano così tremendamente desiderato.

Non se lo ricordava, com’è che avevano iniziato a preparar la tavola lasciando la tv parlar per loro, in un insieme di gesti consecutivi, catena di montaggio della loro vita familiare. Non se lo ricordava, com’è che aveva smesso di chiamarlo in ufficio, di scambiarsi mail d’amore e messaggi di zucchero. Non se lo ricordava, quando aveva smesso di dormire tra le sue braccia, ora ch’era così abituata a voltarsi dall’altro lato.

Il tergicristallo scivolava stanco sul vetro, con una pioggia stanca a dargli scacco. Non c’erano stati litigi, si erano spenti gli ardori, boh. Gli voleva bene, mai avrebbe pensato di vivere senza di lui. Aveva quel modo di capirla anche senza che lei avesse proverito parola, sapeva passarle il formaggio senza che lo chiedesse, sistemare il rubinetto senza farsi pregare, chiuderle la lampo del vestito senza averlo chiesto. Ma forse, forse si era spento. Lei era ingrassata, certo, e quella vecchia gonna di lanacotta le stava malissimo. Se la coprì piano, con l’impermeabile, vergognandosi un po’.

Accostò l’auto, vicino all’ufficio, in modo da non farla bagnare troppo. Lei prese di corsa le sue cose, aprì la porta e l’ombrello, evitando la pozzanghera. Ciao, perchè ciao basta.

– Anna.
Le prese la mano, prima di lasciarla scivolare nella sua giornata. E la guardò negli occhi.

– Anna. Volevo dirti… Hai sempre due gambe stupende.

Inebetita, lasciò lì un sorriso. Chiuse la porta, scivolò nel portico, verso l’ufficio. Tra la pioggia e le lacrime di un’emozione grande.

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