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Categoria: racconti

Il peggior nemico di te stesso sei te, te stesso che non sei altro.

Il peggior nemico di te stesso sei te, te stesso che non sei altro.

Stai lì in mezzo e pensi, boh, sono in pericolo. Non sai se andare in un verso o nell’altro, non hai nessuno a fianco, son andati già avanti, o indietro. Non sono più a portata di voce.
E allora, allora che cazzo fai.
Potresti trovare un’uscita, o un’entrata. Oppure star qui, ferma, aspettare che arrivi qualcuno, o magari un’idea decente, o crepare e basta.
E allora passi il tempo: se crepo chi si preoccuperà? Minchia, nessuno.
Forse i gatti. Gli amici scriveranno post in bacheca, condivideranno foto, era così un raggio di luce, rimarrai pesssempre nel mio cuore, come no.
Quanto durerà, una settimana? Non sono un cazzo di nessuno, non faranno concerti in mia memoria, ne’ festival, ne’ borse di studio, ne’ aule di conservatorio. “Ah s’, quella lì, bionda, ma è morta anni fa no?”.
Il “ma è morta”: cosa cazzo ti frega? Son figa anche da morta. E lo so che diranno “bionda” e “morta” nella stessa frase.
Ma prima dovranno trovarmi. Sempre che si accorgano che son qui.
Sempre che si accorgano che son scomparsa. Che non son più lì fuori, o lì dentro.
L’unica è aver lasciato un riferimento. Un riff. Un campione. Qualcosa che casualmente portasse a “..a proposito… ma quella bionda che…” “ah ma è morta?”.

Posso solo sperare che prevalga la faccenda del “era una bella persona, pagava sempre la Siae, solare/pazza/piena di vita”. (Prima, ‘che adesso è piena di morta).
(Morta, con la a, esattamente).
Metti che ne scrivano un articolone. Metti che non ho la sfiga di crepare in un giorno in cui c’è un’altra notizia più figa. E quindi “donna scompare/signora di mezza età/mamma/professoressa di flautoh/blogger” e magari “col sogno della musica”, per giustificare il fatto che non son famosa come Ligabue.

Okay, non val la pena crepare. Più la cosa del titolone che la morte in se’.
Bisogna uscirne. Trovare un modo. Capire perché diamine, ogni tanto, ci si sotterra nei pensieri, sotto strati di cose che pugnalano perché ci si ostina a vederle dal lato della lama.

Quella cazzo di lama. Ci si specchia dentro la tua età, i tuoi sforzi per costruire qualcosa che non è mai abbastanza. E te la infili nel costato senza che nessuno ti spinga, come se il masochismo fosse la miglior cura per poterti rialzare.

E bon, ti alzi. Tipo automatismo, o forse hai solo freddo. Quindi ti alzi. Ed esci, o entri. Vai avanzi per inerzia, fiato pesante, corpo pesante, testa di ghisa senza una idea decente che sia una. Barcolli, strisci, ti disperi, piangi, sudi, puzzi. Ma smetti subito, perché “donna morta – puzzava pure” è un titolo del cazzo, quindi ti concentri e stimoli le ghiandole ad espellere vaniglia, liquirizia, incenso, anche sapone di marsiglia all’occorrenza.

Eccoli qua (sti bastardi) gli altri. Manco si girano. Li vedi, manco s’accorgono che sei arrivata, tu e l’iperventilazione, hai l’affanno dei tuoi pensieri che boicottano ogni sogno, ogni obiettivo possibile. Il peggior nemico di te stesso sei te, te stesso che non sei altro.
I bastardi continuano a fumare, a parlar tra loro. Manco si sono accorti che non c’eri. E allora fai finta di niente, come quando inciampi e fai i due passetti di corsa come se tutto fosse calcolato.

E tiri innanzi.


No, non c’entra niente la speleologia.

Impassibili

Impassibili

Arriva quel momento delle feste. Giulia spegne il sorriso, abbassa gli occhi verso il bicchiere. Annulla i suoni intorno, ascolta la musica, probabilmente il pezzo giusto, nel momento sbagliato.
Torna ad avere 15 anni, con la ribellione di una vita che non aveva voluto così, senza aver bene in testa quale avrebbe desiderato vivere. Torna ai 15 anni dell’incoscienza, della disperazione profonda, dell’incomprensione del mondo, della voglia di scappare di casa.

Come il mare quando si ritira, svelando la costa e quello che costruisce le sue rive, torna la sua vita e le sue palizzate, i suoi castelli di sogni sommersi, desideri obsoleti ed enormi rimpianti. Gira il vino nel bicchiere, come a voler scongiurare lacrime insulse.  Pensa alle labbra avute, alle promesse credute, alle vie intraprese e lasciate, come se tutto fosse stato trascinato da un amore od un altro, come se tutto dipendesse dall’unirsi in un’altra solitudine. Se lo chiede, se tutto si risolve cambiando barca, ricominciando a navigare con altri capitani. E scoprire le nuove maree, e fidarsi di nuovo di dargli il timone, ritrovandosi di nuovo in alto mare con solo branchi di rassegnazione intorno.

E’ tutto uguale, è sempre tutto ciclicamente uguale? Ognuno è uguale, identico, tutto si ripete qualsiasi scelta si faccia? Si guarda intorno: prova ad invertire le coppie, a giostrare i destini, le catastrofi e la noia, i figli e le verginità, le lauree e la fabbrica. Tutto potrebbe comunque funzionare, alla lunga anche le rocce di piegano e si adattano.

Ma chissà perché, per lei non c’è adattarsi, non c’è rassegnarsi, non c’è mai essere appagata.
Non si accontenta mai. E’ quello, quello che la rende sempre infelice.

Si alza in piedi, chiude gli occhi e come un vip di periferia balla col bicchiere in mano, il vino che ondeggia disperato nel vetro, mettendo in ordine le decisioni impassibili, impassibili sì, da prendere, oggi o domani. Appena trova il coraggio di un’altra solitudine.

I sogni degli altri

I sogni degli altri

Gira il cacciavite tra le mani da impiegato. L’ennesimo mobile svedese da far crescere in casa, come frammento del puzzle familiare. Ma niente, non va. Le cerniere non coincidono. Non è calmo, per niente. Non gli viene affatto da ridere. Ha quarant’anni, è seduto in terra e sta montando un maledetto mobile, maledetto, e lo grida, maledetto, che la moglie e i ragazzi son fuori, maledetto.

Lancia tutto in terra, il cacciavite rotola impazzito fino al tappeto, il mobile ondeggia.  Cazzo ci faccio qui.

Si alza, esce. Boh. Esce perché gli va di uscire. Nessuno gli ha detto che deve uscire. Ma esce, come d’istinto s’esce da un incendio di pensieri.

Scappa nella gente del pomeriggio, invisibile sotto una coperta d’incosciente presa di coscienza. Cosa cazzo. Il mobile, lo vuole lei il mobile, e l’amo, e sono stronzo a pensarlo, la famiglia, eccetera. Come se amare una donna significhi che devi farci famiglia, come lei desidera. Ecco, lei desidera. Che fosse per me, fosse per me (ma la amo, eh, la amo) fosse per me (ma cazzo dici!) fosse per me stavamo insieme mille anni senza costruire un cazzo, vivendo tenendoci la mano (sei un immaturo sei, un immaturo) e vivendo senza un legame, stando insieme solo quando ci va (ma allora non la ami più) ma no, cosa c’entra.

Che poi, c’è anche il lavoro. Manco si ricorda cosa gli piaceva fare. Ah sì, voleva suonare il basso. Ne ha pure uno, che suona come un barbone in camera, e ogni volta che suona lei lo chiama per sistemare quella cosa in cucina, o devono andare dai suoi, o cazzo ne so. (Ma non è colpa sua).

Poi è arrivata l’occasione. Suo fratello, davanti al caffé del dopopranzo, sopra la tovaglia con le fragole, lo ha coinvolto, diamine, è un sogno, un’agenzia tutta nostra. Anni di sacrifici, essì, ma è giusto per il nostro sogno, poi ci piacciono le macchine, mettiamo su un’agenzia e ci lavora la Cristina (Dio che bella la Cristina). E ha realizzato il sogno, ha la casa e la moglie che ama, e l’agenzia, il lavoro che ha sognato eccetera.

I sogni degli altri. Come diamine s’è incagliata questa mia vita nei sogni altrui, passati come fossero i miei.

Incrocia la Sandra, coi figli e le borse della spesa. (Penserà sono un pazzo, mi invento una scusa) Ah ciao, eh sì, devo andare dal ferramenta, sai, la Ale ha preso un mobile… (boh, la Sandra forse la beve). Un metro, gira l’angolo, salvo, dalle spiegazioni per la marea di ansia.
Guarda la gente, intorno, quasi fosse una telecamera di sorveglianza: si gira, memorizza le azioni, va oltre, senza esser notato. Li fissa, li giudica, e li giudica contenti. (cosa cazzo mi manca!). Loro non vivono i sogni degli altri. Loro hanno i loro, magari nemmeno realizzati, ma almeno ne hanno, hanno qualcosa su cui lamentarsi.

Ecco appunto, che ti lamenti a fare? Hai tutto quello che.

La vetrina dell’agenzia, Cristina e le sue gambe accavallate che dondolano a tempo, le dita che saltellano sulla tastiera numerica, l’unghia azzurra a tener alzati due fogli del blocco.
“Vieni di là”, che ho bisogno.
Ho bisogno di quelle unghie che mi segnano la schiena, sotto la camicia, ho bisogno dei tuoi fianchi al mio ritmo, senza svestirti del tutto, senza doverti baciare, senza chiedere e spiegare. Trascinarti sopra le carte dei numeri, immergermi nei tuoi capelli e dimenticarmi del mondo. E morderti, strapparti di dosso il piacere, e proseguire oltre, senza fermarmi a darti fiato, per ritrovartelo ancora, di nuovo, spettinata e con il trucco che scivola nel rossore del tuo viso.

“Caramella?”
Eh, non posso, la Ale dice che la menta mi aumenta il reflusso. (Ah, seduttore nato, proprio). Esce dall’agenzia, prendendo un foglio qualsiasi, di nuovo vergognandosi di non aver motivazioni. Non ho sogni, non ho motivazioni, nemmeno sensi di colpa.

Riprende il cacciavite, riprova con la cerniera, ora chiude. E’ perfetto, non me lo sognavo nemmeno ci stesse giusto in fianco alla libreria. Non me lo sognavo, proprio.

Le valli vuote

Le valli vuote

D’un tratto, un panorama. Anche il vento si spense, anche il sole rimase muto. Tutta una valle, fuori dall’auto, le si presentava davanti ad accogliere tutti i suoi pensieri. Stava voltando la pagina, lo sapeva, lo sentiva; si stava crogiolando negli addii, cercando di imparare a farne a meno, andando un poco più avanti. Si era appoggiata per tanto tempo, per sopravvivere, per ripararsi dalla tempesta, ma ora era pronta per proseguire.

Era forte. Fece molta strada, armata di tenacia, di fiducia in quel karma che doveva restituirle ciò che era stato versato, in lacrime e ostinata inerzia di proseguire. Sistemata con ordine la vita, aveva preso l’equilibrio. Era tutto a posto.

Poi, poi un’altra vallata. Un altro spazio immenso in cui versare i suoi traguardi, i suoi nuovi bagagli. E lì, lì pianse. Come una bimba abbandonata.

La vallata era di nuovo vuota, silenziosa, trasparente. Aveva messo tutto in ordine, eppure quelle mani erano piene di tagli e sofferenze, senza carezze a proteggerle, quegli occhi avevano visto troppo a fondo nelle cose e nelle persone, da non credere più. Quand’era ragazza pensava fosse tutto più facile, pensava che qualcuno avrebbe sempre pensato a lei. Non immaginava di dover arrampicarsi sola, per quella dannata vallata, cacciata giù da chi aveva amato. Aveva lottato tanto. Lei lo sapeva. Gli altri, gli altri no.
Aveva raggiunto tutto quello che aveva desiderato, ma era sola.

Si sedette sul bordo della strada, abbracciando le ginocchia. “Noi non esiste”, si ripeteva, “esisto solo io, io sola”. Voleva riuscire a metterselo in testa, una volta per tutte.
Aveva dato a tutti, occupandosi di tutti, amandoli tutti. Amandoli in quel modo in cui nessuno l’aveva mai amata.

Raccolse i pensieri, li rimise in tasca, accese la macchina e proseguì. La vita sembrerà ancora così felice, i sorrisi saranno così leggeri. Peccato che il vuoto, ogni tanto, ucciderà.

 

 

La relazione perfetta

La relazione perfetta

Le brillano gli occhi quando racconta, riempiendo di dettagli inutili il ricordo dei loro primi incontri, come a volerli vivere di nuovo, ripassando ogni scena per non dimenticarsela.
Lui in fianco, ascolta in silenzio, sorride, la accarezza con lo sguardo.
Giulia domanda, partecipa, cerca di istigare il viaggio nel dolce passato di quel racconto, testimone postumo della nascita dell’amore dei suoi amici.
E ride, e gioisce sinceramente, senza un’ombra di gelosia, che non si deve esser per forza il suo autore per apprezzare un bel quadro.

Li trova sinceramente adorabili, loro che credono ancora all’amore “della propria vita”, con tanto di cuoricini espansi e intrecci indissolubili di esistenze, senza un briciolo di dubbi o di perplessità nel futuro.

Giulia d’altronde non si lamenta, ha tutto, dal lavoro giusto alla casa perfetta, all’uomo che si incastra perfettamente con i suoi ritmi, con le sue esigenze. Non le manca più niente.

Sale in macchina e torna a casa, si sente così matura, così “oltre” i paraocchi di certe relazioni. Siamo tutti soli, ci facciamo semmai compagnia, viviamo il presente e godiamocelo. Ogni storia sembra uguale, grandi progetti per il futuro, anelli al dito, promesse, gli stessi gusti per la scelta dei mobili, la routine dolce del prepararsi la colazione a letto, gli amici che non si distingue più se siano dell’uno o dell’altro.
Poi peró inizi a non sopportarti più, trovi l’ufficio più piacevole della tua casa, sbuffi, odi tua suocera e soprattutto la sua peperonata, che riempie il TUO frigo. Solo che ora non c’è più tuo e suo, esiste una unica soffocante entità dalla quale non sai come uscirne. E tutti ció che puoi fare è riordinare la libreria, mettendo il tuo nome sopra i tuoi libri.

Che fortunata sono, pensa Giulia. Ho davvero tutto ció che voglio. La mia vita è perfetta. Ho il mio letto tutto per me, posso girar per casa spettinata e con le fette di cetriolo in faccia, uscire quando mi pare ed avere il MIO frigo, con le mie cose, senza peperonata.

Se lo ripete di nuovo, perfetta, perfetta. Una vita perfetta, orientata all’oggi, altro che progetti utopici, ormai fuori moda.

In sostanza, dovrebbe essere felice.
Dovrebbe essere felice.

Certe notti, notti certe

Certe notti, notti certe

Poi ci son sere in cui vorresti attenzione, perché non riesci a metter a fuoco cosa non funziona, ma quel che è certo è che non funziona. Ma il resto del mondo è occupato a farsi sostenere da te, e risponde occupato.
Son sere in cui senti la confusione fuori, e il silenzio dentro di te, un silenzio tremendamente assordante.

La soluzione migliore? Pianificare.
Sistemare i tasselli, programmare gli interventi urgenti alla propria vita, rimandare quelli che prevedono un vago senso di decisionalità lucida.

Perché di momenti simili ne incontri sempre. Periodi in cui hai troppe cose da fare, e a volte son così fastidiose da esser rimandate all’infinito.
Ecco, io quando mi ritrovo con mille cose da fare, la rata del condominio da saldare, il tagliando della macchina, l’appuntamento con l’agenzia, la definizione di un tal progetto, la visita dal dentista, il rinnovo dell’imob, la macchina del caffè da riparare, e scrivere quella cosa sul blog, e… e…
Ecco, son tutte scuse. Per impegnar la testa con cose che mi impediscano di pensare al vero problema. Vero, o presunto tale. Ma comunque, abbastanza doloroso da dover essere “nascosto” da mille scemenze urgenti, da procrastinare all’infinito.

E poi ci sono sere, si diceva.
Tipo questa.

Inizio

Inizio

Destarsi a metà tra il sogno e il grido della sveglia, lasciata lì a distinguere la realtà dalla fuga, il quotidiano dal tradimento.
Sentire freddo, coprire il corpo nudo e stropicciato di sesso e di confusione alcoolica, e in fianco una pelle sconosciuta, ancora sporca di baci sconsiderati.
Si aggroviglia tra le lenzuola pensando se deve abbracciarlo, se può accostarsi, se le carezze sono ancora fresche da giustificare la vicinanza, la ricerca del contatto. Poi pensa che il freddo non è certo un buon motivo per avvicinare le distanze, per complicanze, legami, inizi.
Eppure lo stordimento rimbomba ancora nelle vene, i brividi convulsivi sono finiti solo un istante fa, o forse son minuti, o ore. Sul bordo, tra il destarsi al mondo reale, chi sei come ti chiami come stiamo adesso, oppure tornare a tacere, tirando lunga sul momento in cui ci si chiariscono le posizioni.
E mo’ si gira. E apre gli occhi, e magari è da mezzora sveglio, e ora la fissa gli occhi. E ci guarda dentro, come se non bastasse la tua nudità.
Ha un bel viso, non se lo ricordava, non l’aveva notato. Un viso liscio, limpido, trasparente, la barba incolta ma ordinata.
Anche lui la nota, è bella, anche coi capelli spettinati dal caos della fornicazione, il trucco scemato quasi a sparire, e lui a dirsi che le donne dovrebbero smettere di truccarsi, già, che poi sembrano tutte uguali.
Ah, le labbra, dunque son quelle, le labbra desiderate, e morse, e rincorse. Parte una carezza. E’ partita, niente, non la fermi, mannaggia. Una carezza tenera, a lisciarle i capelli. A lei viene da chiudere gli occhi, per godersela, ma resiste, che non si pensi che, che non si dia l’impressione di, insomma, grazie, non è che provo niente altro che eh, a meno che tu, ecco, ma no, ma insomma, quasi quasi diamoci del lei.

Vabbè, il sorriso ci sta. Prende fiato, riprende il controllo, e glielo chiede. Profonda. Seria. Professionale.

-… colazione?

Perfect 4 a Flauta

Perfect 4 a Flauta

Passi sotto il Big Ben di Londra, e questo suona il mezzogiorno. Qualcosa vorrà pur dire.
Trovi il negozio che cercavi, provi flauti a profusione, eviti acquisti compulsivi solo per un pelo. E la borsetta che poi ti porti a presso diventa identificativo per incontrare flautisti ovunque. Che ti fermano proprio per strada, manco fossi qualcuno.
Imbracciare un ponte, e trovarsi in un quartiere d’artisti, con banchetti di cose talmente buone che son incluse tra i vizi capitali. E gente, facce, storie, non hai tempo di fotografare, stai ancora in download nella memoria, che vuol mantenere in testa tutto questo.

Ora, ora è il momento di espiare le mie nefandezze. Vado coi vizi capitali. Di cui sopra.

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Cielo.

Cielo.

Ed uscendo dall’ufficio, ho guardato in alto, lo scorcio di cielo tra un palazzo e l’altro.

Azzurro. Azzurro intenso.

E son rimasta lì, paralizzata, a perdermici. Un colore, ampio, pieno di energia e di grandezza, lontanissimo eppure ad un palmo dal naso.

E in un attimo, è esploso, assorbendo le forme dei tetti intorno, i rumori del bar, le auto parcheggiate, la gente che mi passava a fianco.  Immenso, infinito, sicuro di se’ e quasi strafottente della sua grandiosa ed uniforme bellezza.  Quasi un dipinto, con colori fatti di nuvole e gas e atmosfera e chissà cos’altro.

Un diamine di aereo, in cima, decise di tagliarlo, passando perfettamente in mezzo al mio scorcio di tetto azzurro, con la scia bianca spessa dietro, come un taglierino da sarta sulla tela.
Lento, altissimo, pieno di gente che va in ferie, eh sì, non può essere altrimenti. Gente che se ne va, che si staglia nel cielo col naso dentro un giornale, ed una hostess troppo truccata a portare carrelli di succo d’arancia annacquato.  Mentre io, ebete, li spiavo guardando per aria, ferma in mezzo alla calle, naso per aria, indifferente allo sguardo dei passanti intorno.

C’era pure una brezza bollente, di un’estate che s’è ricordata di arrivare, che si strusciava invadente sulla pelle.

A quel punto, ho dimenticato tutto e mi son messa ad essere felice.

Decisioni dall’alto

Decisioni dall’alto

E niente. La scorsa settimana ho sognato il mio papà, in quello spiraglio di semincoscienza tra il sonno profondo e il risveglio della mattina, quando la prima sveglia è già suonata, ma ti appisoli lo stesso.

Era sorridentissimo, il viso più ingrasato, e portava una giacca di camoscio. Camoscio? Mio padre, sempre in completo scuro, camicia e cravatta inappuntabile anche in ferie, con una giacca di camoscio… impensabile.

Si vede che lassù si usa così.

E quindi. Son con mia mamma, dal marmista, a decidere della pietra del loculo. Il colore della resina per l’iscrizione, il tipo di portafiori, la lampada votiva. Mettici la croce, mettici l’N.H. (che siam pur sempre nobili), mettici il dott.,  cavaliere no che non gli è mai piaciuto. Bon.
La foto, la foto la sceglie mia mamma. Ne tira fuori alcune, sempre le stesse, quelle dell’epigrafe.

Ma non sorride mai.

Il Gabry dice che il nonno tanto non sorrideva mai, aveva più uno sguardo tra il sereno e il pensieroso. Mia mamma però insiste.

E quindi, tira fuori una loro foto (“è di qualche anno fa’”, ovvero novembre ’97…) di un loro viaggio a Zara, la città di nascita di mia mamma. Sono al ristorante, qualche buona bottiglia di ottimo rosso davanti, e lui sorride.

Che ve lo dico a fare, ha la camicia perfetta e la cravatta immobile al suo posto. E una giacca, appunto, di camoscio.

…okay papà, ho capito, mettiamo quella.

Ciao.