Io sono come mia nonna.

Io sono come mia nonna.

“..te piacerebbe…”
Mia nonna era una pianista. Era una donna con uno stuolo di figli, scappata da Zara (non il negozio, la città dalmata, su..) costretta dagli avvenimenti causati da Tito e da una guerra subdola, che “invitava gentilmente” gli italiani ad andare a casa loro (che al tempo era la Dalmazia, casa loro, ovvero l’Italia, ma l’Italia al di là del Mediterraneo li definiva, e li definisce anche ora, croati, e all’epoca pure fascisti… ma questa è un’altra storia). Era una profuga. Io son figlia di immigrati, alla fin fine.

Lo stuolo di figli, dicevo. Ognuno, dai ricordi che ho dei miei zii, che in verità non ho mai frequentato a sufficienza, aveva un bel caratterino, gestirli non dev’esser stato facile. Mio nonno, che non ho mai conosciuto, è una figura mitologica che mia madre ha circondato di mistero sacrale e che, in sostanza, è morto troppo presto, cieco per giunta, e forse poco incisivo nelle decisioni di famiglia. Mia nonna era un caterpillar. Gestiva tutto, decideva, comandava. Sul comandava potrei scriverne a fiumi. Magari lo spiego dopo.

Insegnava pianoforte, severa come pochi, ricordata con rispetto e timore dai suoi ex allievi. Non ricordo gesti di affetto, coccole da nonna o libri di fiabe o torte e dolcetti, non ricordo nemmeno particolari sorrisi. Era una tosta, mia nonna. Mi regalò la prima Barbie, i primi peluche, tanti fumetti. Sembra non avesse passione per le figlie femmine, e quindi ancor meno per le nipoti femmine, ma io che ne so, tutto ciò che pensavo era filtrato da mia madre… mia madre che traduceva tutto attraverso un vissuto di mezze verità e sacre fandonie divenute per abitudine più verità del reale. Balle, insomma. Ma balle a cui credeva sinceramente.
Torniamo a mia nonna: c’era un disegno di Beethoven a casa mia, fin da bambina pensavo fosse un ritratto di nonna, non del buon Ludovico. Era uguale. Inclusa l’espressione socievole.
Viveva sola, a turno riceveva una famiglia di uno dei figli, nella sala da pranzo agghindata con tutta l’argenteria in pole position, immaginiamo la piccola flauta che a pochi anni e con poco appetito doveva districarsi tra troppe posate e tanto galateo. Ecco, abbracciamola, quando poi scappa nell’altra stanza, con le sedie a dondolo al posto del divano, a guardare la prima tv a colori.

Mia nonna era del 98. Nel senso, 1898. Centouno anni più di mio figlio. Non so sostanzialmente nulla di lei, se non quei ricordi filtrati da, ecco, l’ho scritto prima.
Forse non era così anaffettuosa. Voleva sinceramente bene a mio padre, suo genero, che le dava del lei, e non a mia madre (ma anche qui, il plugin verità/esagerazione è attivato). Per lei lo studio era sacro, non si discuteva sul fatto di studiare, era come respirare. Ecco, le somiglio, in questo.
Ed era severa, materna e disciplinata con gli allievi, come fossero stati tutti figli acquisiti, ed anche in questo, ci siamo.
Era tosta. Madonna santa se lo era. Aveva affrontato la guerra, la fuga a Venezia, il figlio strappato di casa dai titini e fucilato poco dopo (il plugin dice sia ancora disperso in guerra..), rimanere vedova con troppi figli da sistemare, tener botta fino a 86 anni, tener botta ancora fino ai 100 in una casa di ricovero. Le case di ricovero non sono dei bei posti.

Mia nonna comandava, già. Però. Un giorno abbiamo suonato insieme, sarò stata alle medie, ero una ragazzetta. Non ricordo assolutamente cosa, ma tant’è, nella mia famiglia suonare insieme era un qualcosa che andava fatto, quasi fosse l’unico gesto d’affetto che ci si sapeva scambiare. Io, quella volta, comandavo. Scorbutica, pure. Mia nonna, mia nonna al piano, mia nonna accompagnava, mia nonna sopportava lo sclero del solista, piegata e paziente e disciplinata secondo il suo ruolo. Serissima.
Io sta cosa del comandare, ci ho messo tempo eh, ma sto guarendo. Adesso semmai coordino. Chissà, magari con calma le generazioni smaltiscono le attitudini dei progenitori, anche se probabilmente rimangono lì sotto a spingere, indomite, quando si smette d’essere buone persone.

E quindi. Mia madre, in una sfida alla vita, è ancora in ospedale. Riferiva che lì “tutti le dicono cosa fare, tutti vogliono comandare”. Ed io e mio fratello, la generazione che smaltisce, ha saputo commentare in modo adulto, ragionato, come per dirsi “vi somigliamo ma siamo migliorati”. Già.

“Col trattore in tangenziale”. In coro.

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